Il mondo adesso deve fare i conti con due pericolosi conflitti in simultanea: la guerra tra Hamas e Israele in Medio Oriente e quella tra Russia e Ucraina in Europa. La tensione è altissima tra Israele e Hamas, potrebbe accadere di tutto.
Benjamin Netanyahu è durissimo: «Hamas deve essere schiacciato». Il primo ministro israeliano fa riferimento alla strategia terroristica dello Stato islamico: «Hamas è l’Isis». Il movimento integralista islamico risponde per le rime annunciando una lotta senza quartiere contro i nemici. Raccoglie il pieno sostegno dell’Iran. Il ministro degli Esteri di Teheran Hossein Amir-Habdollahian è fautore di una alleanza tra i paesi musulmani. Minaccia: se Israele invaderà Gaza «nessuno può garantire il controllo della situazione» e ci sarebbe il rischio di un allargamento del conflitto. La Cina e la Russia, pur con toni pacati, si schierano al fianco di Hamas. Le democrazie occidentali appoggiano Israele ma sono contro l’ingresso di truppe a Gaza. Gli Stati Uniti lanciano appelli al dialogo e schierano due portaerei nel Mare Mediterraneo orientale.
L’attacco a sorpresa di Hamas dalla Striscia di Gaza scatta sabato 7 ottobre. Sciocca gli israeliani per due motivi: l’imbattibile esercito ebraico è sconfitto, dei terroristi uccidono anche civili indifesi nei villaggi e nei kibbutz, compresi donne e bambini. Israele respinge l’attacco e reagisce bombardando Gaza. La sera del 17 ottobre viene colpito l’Ospedale Battista Al-Ahali della Striscia, i morti sono centinaia. Hamas accusa un raid israeliano. L’esercito dello Stato ebraico respinge le accuse al mittente: la responsabilità è di «un lancio fallimentare» di un razzo di Hamas. Dall’inizio del conflitto le vittime sono migliaia, circa 200 sarebbero gli ostaggi catturati e trasferiti a Gaza. I prezzi di petrolio e gas tornano a volare.
Stragi, massacri, ecatombi. Da quasi 80 anni Israele e il Medio Oriente vivono l’incubo di una guerra infinita. Molte volte la barbarie omicida arriva perfino a trucidare civili indifesi, donne e bambini compresi. Quanto è avvenuto il 7 e il 17 ottobre ricorda un’altra strage di civili innocenti: migliaia di palestinesi furono trucidati nel 1982 dai miliziani falangisti nei campi profughi di Sabra e Shatila, vicino a Beirut, e le truppe israeliane non si mossero per impedirlo.
Israeliani e palestinesi hanno alle spalle una lunga storia di feroci guerre. Tre sole volte si è sfiorata la pace, un accordo per una civile convivenza di due diversi Stati in Palestina. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu vota a maggioranza la risoluzione numero 181: stabilisce la divisione della Palestina in base al principio di “Due popoli due Stati”. Nel maggio 1948 David Ben Gurion annuncia la nascita dello Stato ebraico. Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Libano attaccano il neonato Stato ma vengono sconfitti. Israele è vittorioso. Il Cairo occupa la Striscia di Gaza e Amman la Cisgiordania: i palestinesi restano senza il loro Stato. È la “nakba”, la catastrofe, con l’esodo forzato di 700.000 palestinesi arabi dai territori occupati.
Seguono molte sanguinose guerre tra le nazioni arabe e Israele oltre a disperate rivolte dei palestinesi. In particolare lo Stato ebraico vince due altre decisive guerre contro l’alleanza dei paesi arabi: il conflitto del 1966 e quello del 1973.
Il 13 settembre 1993 si riapre la speranza, sembra arrivare la svolta di “Due popoli due Stati”. Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si stringono la mano davanti a Bill Clinton nella Casa Bianca. Il premier laburista israeliano e il presidente dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) riconoscono i reciproci diritti all’esistenza. Rabin dà il disco verde alla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese per amministrare la Cisgiordania e Gaza, non è ancora uno Stato ma la strada imboccata sembra quella buona. Tuttavia le resistenze restano fortissime all’intesa. Non a caso Rabin nel 1995 viene assassinato (stessa sorte subì nel 1981 il presidente egiziano Sadat) da un estremista della destra ebraica.
La terza scintilla di speranza scocca l’11 luglio del 2000 dopo gli accordi di Oslo. Ehud Barak e Yasser Arafat, accompagnati da Bill Clinton, passeggiano insieme nei giardini di Camp David, la residenza di campagna del presidente degli Stati Uniti.
Sembra fatta. Invece il 24 luglio il vertice si conclude senza una intesa. Il premier laburista israeliano e il presidente dell’Autorità Palestinese non trovano l’accordo sullo status di Gerusalemme e sul rientro dei profughi.
Ricominciano le rivolte dei palestinesi e gli attentati. In Israele si succedono governi di destra e di estrema destra votati dagli elettori impauriti in cerca di sicurezza. Abu Mazen, erede di Arafat, perde colpi. L’Olp, organizzazione politica laica, perde la leadership tra i palestinesi e Hamas, struttura integralista islamica vicina all’Iran, nel 2006 vince le elezioni a Gaza, assume il controllo della Striscia e caccia Abu Mazen a colpi di kalashnikov. Benjamin Netanyahu, uomo della destra, per 15 anni guida il governo israeliano con una politica del pugno di ferro verso i palestinesi. Persegue un accordo con i paesi arabi trascurando il confronto con i diretti interessati, i palestinesi. Ma non arriva né la sicurezza né la pace, c’è una nuova pericolosissima guerra. È meglio ricominciare dal pur difficilissimo negoziato imperniato sulla parità dei diritti, sul principio di “Due popoli due Stati”.