L’olivo e la vite sono due piante preziose. L’olio d’oliva assieme al vino è un simbolo della civiltà del Mediterraneo, in testa quella greco-romana. Fin dagli albori della civiltà l’olio fu usato con scopi gastronomici, medicinali, salutistici ed estetici. L’olivo era considerato una pianta sacra e un suo ramoscello era ed è uno dei più belli simboli della pace. Maria Luisa Berti racconta la storia dell’albero di olivo e del suo olio. Il 9 novembre abbiamo pubblicato il primo articolo, oggi 13 segue il secondo.
L’oleastro, antenato dell’olivo, è un cespuglio spinoso con piccole drupe già presente in Italia nel Terziario (un milione di anni fa). Infatti alcuni insediamenti del Paleolitico e del Neolitico in Francia (Mentone), in Spagna e in Puglia a Torre del Mare (Ba) testimoniano l’uso alimentare di questi piccoli frutti.
Si ritrovano tracce della pianta nella Bibbia e nel Corano. Nell’Antico Testamento dopo il Diluvio la colomba porta a Noè un ramoscello d’olivo in segno di pace e nella Surah An-Nur si legge: «Allah è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un ulivo né orientale né occidentale…»
I primi olivi risalgono a 7.000 anni fa. Pare siano stati i Fenici ad introdurne la coltivazione nell’area mediterranea. Nel V millennio a.C. a Creta e ad Haifa, in Palestina, erano già diffuse la coltivazione dell’olivo e la produzione dell’olio; infatti vi sono stati rinvenuti mortai, presse e tavolette d’argilla con dati amministrativi relativi a tale produzione. Da Creta l’olio giunse alle isole greche e in Egitto, dove era considerato un dono divino e veniva usato per la cura del corpo e per onorare i Faraoni, come si evince dagli affreschi delle loro tombe e dai vari recipienti ritrovati.
Fin dal 4.000 a.C. in Armenia, Palestina e anche India, l’olio d’oliva veniva usato come unguento per la pelle e anche come medicinale.
La prima fonte scritta che documenta la produzione e la commercializzazione dell’olio d’oliva è il codice di Hammurabi, il re babilonese che regnò dal 1792 al 1750 a.C.
La coltivazione dell’olivo nella Ionia è attestata dai numerosi ritrovamenti degli scavi di Micene. Da qui provengono i vasi per il trasporto dell’olio ritrovati nell’insediamento miceneo di Porto Perone (II millennio a.C.) vicino a Satyrion (Taranto). Troviamo molti riferimenti letterari nei poemi omerici, in particolare nell’Odissea dove Ulisse, il cui letto nuziale era stato intagliato nel legno d’ulivo, viene unto con olio d’oliva prima da Circe poi da Euriclea, e si ungevano nello stesso modo Nausicaa e le sue ancelle, i guerrieri sotto le mura di Troia.
Nella mitologia greca era stata la dea Atena a regalare agli uomini l’olivo e ad insegnarne la spremitura. Un tempio, dedicato alla dea, sarebbe stato costruito sull’Acropoli intorno al primo albero d’olivo. Per i Greci, che avevano preferito il dono di Atena al cavallo da guerra di Poseidone, la pianta era simbolo di pace. Era vietato sradicare questi alberi ed erano previste pene severe: il colpevole veniva giudicato dall’Areopago e poteva essere condannato alla confisca dei beni, oppure all’esilio o perfino alla morte. L’olio veniva usato come alimento, come medicamento, come cosmetico per la pelle e per i capelli, per l’illuminazione e le foglie d’alloro erano ornamento per i vincitori olimpici.
La coltivazione dell’ulivo si estese in tutte le terre della Magna Grecia a partire dalla metà del I millennio a.C. e nel resto della penisola fu diffusa dagli Etruschi e poi dai Romani. Secondo Plinio il Vecchio, sarebbe stato il re etrusco Tarquinio Prisco nel 581 a.C. a introdurne la coltivazione. Nei territori conquistati Roma diffuse la coltivazione dell’olivo, la produzione dell’olio e la sua commercializzazione; impose anche il pagamento con l’olio d’oliva di alcuni tributi. La produzione avveniva in varie fasi. Una prima spremitura, con le olive ancora verdi e con il nocciolo, produceva un olio eccellente; la seconda spremitura schiacciava il restante e dava un prodotto ricco di morchia (feccia, sedimenti). I residui del frantoio venivano usati come combustibile per le lucerne che illuminavano case, strade e templi. In età imperiale Roma importava l’olio dalla Spagna via mare, ma i benestanti usavano olio italico e rifiutavano il burro e il grasso di maiale in uso nei paesi nordici. Con la caduta dell’Impero Romano, l’olio divenne una merce rara e preziosa ritrovabile soprattutto nei monasteri benedettini, come in quello di Fara di Rieti. Divenne di nuovo prodotto di scambio con l’avvento delle Repubbliche Marinare di Venezia e Genova.
Una delle zone italiane ricca di uliveti è la Sabina: colline ricoperte di oliveti secolari, verdi vallate, boschi di querce e di faggi nei monti, borghi medioevali, castelli e monasteri caratterizzano questo territorio. Ma soprattutto vi sono diffusi, oltre ai campi di olivi, numerosi frantoi per la produzione dell’Olio Sabina D.O.P., produzione che dal 2009 è tutelata da un consorzio che riunisce produttori agricoli, frantoi e imbottigliatori di 46 comuni delle province di Roma e Rieti.
Il Consorzio Sabina DOP, per salvaguardare l’ambiente ed impedire lo sfruttamento sconsiderato del suolo, sta promuovendo l’agroecologia. Significa tornare all’olivicoltura del passato, variare le produzioni agricole, promuovere allevamenti allo stato brado, inserire insetti impollinatori come le api, ridurre l’impiego di fitofarmaci contro i parassiti ed infine vietare le coltivazioni intensive.
Gli olivi proteggono il terreno da rischi idrogeologici e assorbono una grande quantità di anidride carbonica. La loro coltivazione, inoltre, può adattarsi anche ad ambienti aridi permettendo il recupero di territori abbandonati. Secondo gli studi del Consorzio, «la Sabina con 2.500.000 ulivi a nord di Roma rappresenta oggi il più grande filtro di anidride carbonica della capitale».
Secondo articolo – Fine