Il “caso” di Beniamino Zuncheddu, è quello di un inerme pastore sardo accusato di omicidi, condannato sulla base di prove più che evanescenti, che comunque non gli risparmiano oltre trent’anni di carcere.
Si è sempre proclamato innocente ma non creduto; ora, in fase di revisione del processo, vien fuori che un testimone ritenuto “chiave” è stato invece sollecitato in modo sgangherato ad accusarlo. Giorni fa Zuncheddu è stato scarcerato, ora attende che finalmente sia riconosciuto il clamoroso “abbaglio” di cui è rimasto vittima. Di questa vicenda nulla si sarebbe saputo se il difensore di Zuncheddu, l’avvocato Mauro Trogu non si fosse rivolto a Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna e tesoriera del Partito Radicale; e se il Partito Radicale non avesse preso a cuore l’“affaire”.
Una vicenda che comunque i mezzi di comunicazione hanno trattato frettolosamente e pessimamente: riflesso di una sorta di vergogna per non essersi accorti (non essersi voluti accorgere), di questa vicenda; e sarebbe almeno indizio di resipiscenza. Il sospetto è si tratti di “semplice” indifferenza, incapacità di comprendere. Una pigrizia, un intorpidimento che impedisce di scorgere dove sia la notizia, accompagnato al pavloviano riflesso di scansarla con cura. Poi si può aggiungere – malizia comprovata da tanti precedenti episodi – un carico l’avrà anche messa una rigorosa conventio ad excludendum: quando di qualcosa si occupa il Partito Radicale, la si tacita e ignora.
Ma per tornare a Zuncheddu: si potrà obiettare che di casi di errori giudiziari, in questo paese ne accadono in quantità; dunque, ci si fa il callo. Ma che siano innumerevoli, i casi Zuncheddu, non è certo valida giustificazione; anzi, è motivo aggiuntivo per occuparsene, e dal particolare puntare al generale. Ad ogni modo il callo solitamente duole. Qui l’unico dolore è quello delle vittime e dei congiunti e degli amici delle vittime.
Neppure si giustifica l’espressione “errore giudiziario”. È piuttosto un ennesimo caso di ingiustizia. Quella ingiustizia che, riflette Manzoni, «poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro…».
Né ci si può limitare al “caso” umano (che c’è). Il modo in cui si amministra la giustizia, e le sue gravose, dolorose conseguenze, sono un dato politico; politicamente va risolto: con risposte politiche rapide, urgenti. La politica si ingegna altresì a ignorare l’emergenza e l’urgenza. Se sia per una sorta di ricatto subito o per complicità e interesse a che la situazione non muti, importa poco. Identico è il risultato.
Nella prefazione a un libro (Storie di ordinaria ingiustizia), Leonardo Sciascia annota: «Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…».
Una prefazione e un libro pubblicati nel 1987: quattro anni prima che iniziasse il calvario di Zuncheddu. Potenti e tecnicamente irresponsabili entità da trenta e più anni fanno di tutto perché il dato politico che genera ogni anno centinaia di casi Zuncheddu non sia avviato a soluzione: di quel potere di cui parla Sciascia si vuole continuare a godere, invece che soffrirne.
Con buona pace del giudizio che la società ha dato e dà, ogni volta che viene messa in condizione di farlo. Semplicemente, arrogantemente, se ne fregano.
Sempre nella citata prefazione Sciascia ricorda un caso che – iniziato negli anni ’50 del secolo scorso – appartiene ormai alla storia, sopravvive nei libri di dottrina giuridica: le arringhe degli avvocati, le motivazioni delle sentenze dei giudici sono uno dei rari ed eclatanti esempi di errore giudiziario.
È il caso Gallo: la condanna per assassinio del fratello di un uomo che con il fratello aveva soltanto violentemente litigato. Da quel momento il fratello era scomparso, andandosene a rifarsi altrove una vita riuscendoci senza bisogno di una identità anagrafica. La morte presunta era, in quel caso, diventata certezza di morte per assassinio; senza peraltro che il cadavere fosse mai stato trovato per la semplice ragione che il morto godeva di ottima salute. Eppure, il processo per omicidio venne istruito, la sentenza emessa, la condanna eseguita…
Che questo e altri casi abbiano colpito e segnato il giovane Sciascia aiuta a capire il perché di tanto impegno nell’età più matura, l’impegno in cause che tante polemiche gli hanno procurato: la giustizia vissuta come “ossessione”.
Due vicende di ordinaria ingiustizia, di clamorosi errori giudiziari. C’è un filo che lega queste due storie (e altre se ne potrebbero citare); anzi, più d’uno. Chi legge questa nota certamente non faticherà a individuarli.