Alla vigilia delle elezioni di giugno, gli agricoltori di mezza Europa, che bloccano strade e autostrade contro la politica ambientale di Bruxelles, alla fine potrebbero sconvolgere gli equilibri di potere su cui da anni si regge l’Ue.
Il malumore delle campagne, insieme all’eco mediatico prodotto dalla marcia dei trattori, possono gonfiare il voto a favore dei candidati delle destre, penalizzando l’attuale alleanza di centro-sinistra tra Popolari e Socialisti.
La marcia dei trattori entra a far parte di quel movimento populista che cresce in tutti i Paesi democratici e adesso minaccia di riportare Trump alla Casa Bianca. La protesta delle campagne europee si inserisce infatti a pieno titolo nello scontro periferia-città, popolo-élite che continua a issare al potere leader populisti. Nel caso del “popolo” dei trattori, l’élite è rappresentata dal Sistema Ue: con i suoi leader politici, le regole calate dall’alto da una classe di burocrati distante dal mondo reale ma sempre molto attenta a quanto accade a Parigi o a Berlino.
Stando così le cose, dalla protesta del mondo agricolo Ue emerge qualcosa che va al di là del semplice malcontento di una categoria di produttori che chiede maggiori sussidi, sconti sui carburanti, tagli delle tasse, semplificazioni burocratiche, eccetera, eccetera. Quello che gli agricoltori contestano è infatti molto, molto di più di una semplice imposta o di un singolo regolamento. Ad essere messo in discussione è l’intero sistema europeo. Per le scelte che ha fatto e per le politiche che ha prodotto. Ma anche per la montagna di regole, norme e regolamenti spesso fatti in modo da complicare la vita a chi lavora.
E così è nata la contestazione dei contadini all’Agenda verde – il cosiddetto Green Deal – che dovrebbe portare alla neutralità climatica entro il 2050. Un piano che per il settore agricolo tradizionale, “poco sostenibile” dal punto di vista ambientale, prevede molti cambiamenti. Una grande trasformazione per azzerare l’impatto sul clima. Sacrifici certamente necessari, ma che vanno spiegati e condivisi. Invece di calarli dall’altro come spesso usa fare Bruxelles. E non solo in campo agricolo.
Messa in questi termini, la protesta degli agricoltori in marcia contro Bruxelles non può essere risolta come vanno facendo alcuni capi di governo che contano su qualche apertura alle richieste dei produttori: aumento dei sussidi, ripristino dei tagli alle imposte sul gasolio, rinvio della messa a riposo dei terreni, eccetera.
Ha cominciato il presidente Macron che, non volendo rischiare un’altra guerriglia per le strade francesi, ha già fatto parecchie aperture. A seguire, il cancelliere tedesco Scholz: aveva appena tagliato le agevolazioni sull’acquisto dei combustibili diesel, ma ora precisa che le esenzioni per i mezzi agricoli saranno mantenute. Stessa cosa a Roma, dove Giorgia Meloni cancellati dall’inizio di quest’anno gli sconti fiscali sui carburanti introdotti da Draghi, adesso annuncia l’aumento da 5 a 8 miliardi di euro dei fondi PNRR destinati all’agricoltura.
Basterà tutto questo a fermare la marcia dei trattori? Probabilmente ci sarà solo una tregua in vista delle elezioni di giugno. Poi chi prenderà le redini della nuova Commissione europea uscita dalle urne dovrà fare un’analisi seria della situazione e cambiare molte cose, ma prima dovrà spiegare il paradosso della guerra dei trattori dichiarata a un centinaio di giorni dal voto europeo dagli agricoltori. Cioè una categoria protetta. Anzi, la più protetta. Quella che riceve da sempre i maggiori aiuti dai fondi europei. Circa 55 miliardi di euro l’anno: un quarto del bilancio Ue.