Il populismo sembra ormai inarrestabile. E avanza a passo di carica in tutti i paesi democratici, mettendo alle corde i vecchi partiti. L’ultimo colpo è stato appena messo a segno in Portogallo, paese dell’Ue che sembrava immune dalla xenofobia, dove alle elezioni politiche del 10 marzo Chega (la formazione di estrema destra fondata nel 2019 da André Ventura) ha fatto il pieno dei voti quadruplicando i deputati.
Che adesso andranno a costituire il terzo gruppo del Parlamento di Lisbona, subito dopo quelli di PSD e PS, i due partiti che dal ritorno della democrazia ad oggi si sono sempre alternati al governo del Paese.
Dai sondaggi sulle elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento europeo, sembra che la situazione determinatasi nel piccolo Portogallo prefiguri il nuovo volto che sta per assumere l’UE. Con i gruppi tradizionali di centro e di sinistra (Popolari, Liberali e Socialisti) destinati a perdere molti seggi a favore della destra populista.
Uno studio dell’ECFR (European Council on Foreign Relations), dà i populisti euroscettici sicuramente in testa in Austria, Belgio, Francia e Paesi Bassi. Mentre arriverebbero secondi o terzi in altri nove Paesi.
Secondo lo studio, l’ondata di estrema destra consentirebbe a cristiano-democratici, conservatori ed estrema destra radicale di mettere in piedi una maggioranza di governo per prendere il controllo della Commissione e delle istituzioni UE.
Se questo è lo scenario che si prospetta in Europa, non bisogna dimenticare che negli Stati Uniti, a novembre, Donald Trump potrebbe vincere le elezioni presidenziali e tornare alla Casa Bianca. Di fronte al rischio concreto di vedere a breve USA e UE in mano ai populisti, le élite urbane e gli intellettuali radical di sinistra farebbero bene a mettere da parte i giudizi sprezzanti verso la “razza inferiore” che vota a destra.
Servirebbe invece un’analisi politica per trovare la chiave di un fenomeno di questa portata. Perché continuare semplicemente a bollare come ignoranti e razzisti gli elettori dei candidati populisti è sciocco e inutile. Anzi, alla fine, accresce soltanto la frustrazione e – quindi – la rabbia della “razza inferiore”.
Allora partiamo dalla realtà, cioè dalla radicalizzazione politica degli ultimi anni che vede tanti Paesi democratici spaccati a metà. Tra città e campagna, centro e periferia, garantiti e non. Dove la mappa del consenso populista si sovrappone alla mappa sociale. E il voto ai candidati dell’estrema destra cresce soprattutto dove maggiori sono le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Chiaro segnale della sfiducia verso i partiti tradizionali, accusati di non essere più capaci di affrontare e risolvere i problemi della gente comune.
L’impotenza della politica tradizionale porta inevitabilmente a un’ulteriore crescita delle formazioni populiste. Si tratta di un circolo senza fine, con buona pace delle élites urbane che continuano a schifare chi vota per Trump ma anche per Giorgia Meloni. Disprezzo manifestato da tanti professionisti, dirigenti, intellettuali che si considerano progressisti e amano autorappresentarsi come unici custodi del “buono, del giusto, del bello”.
E “La bella politica”, era – non a caso – il titolo che Walter Veltroni scelse per un suo libro pubblicato nel 1995 per celebrare la nuova alleanza tra ex comunisti ed ex democristiani. Era l’anno dell’Ulivo, che l’ex Pci affidava temporaneamente al postdemocristiano Romano Prodi per puntare a sottrarglielo subito dopo la vittoria alle elezioni politiche del 1996 contro il Polo delle Libertà di Silvio Berlusconi…