Per la salute mentale mancano le risorse finanziarie e il personale. Trent’anni or sono il Comitato nazionale per la bioetica a proposito di elettroshock (Tec) osservava: «La psichiatria dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale».
Studi autorevoli in ambiente anglosassone già allora ritenevano la Terapia elettroconvulsivante (Tec) inutile, se non perfino dannosa, specie per i danni alla memoria. La strumentazione e le metodiche pur migliorate confermano negli anni successivi le valutazioni di estesa inefficacia.
Uno studio del 2006 riferiva come «le nuove tecniche TEC non abbiano portato a una apprezzabile diminuzione degli effetti dannosi». Se stiamo alla circolare del ministero della Sanità datata 15 febbraio 1999 (cosiddetta “circolare “Bindi”), in Italia la TEC «è considerata ancora oggi un’opzione terapeutica che va, tuttavia, riservata a pazienti affetti da episodio depressivo grave con sintomi psicotici e rallentamento psicomotorio (classificazione ICD10), quando non possono attuarsi terapie farmacologiche, ovvero nei casi di vera e accertata farmacoresistenza…».
Non si ha certezza che tutti i trattamenti siano stati effettuati soltanto a persone affette da questa specifica condizione depressiva ed a seguito di esiti non positivi di precedenti interventi farmacologici. La “circolare Bindi” indica linee guida che limitano e regolano l’elettroshock stabilendo che si debba far ricorso alla Tec solo a seguito di ripetute terapie psicofarmacologiche.
Nello specifico, la circolare prevede (al punto 5) il monitoraggio, la sorveglianza e la valutazione delle applicazioni terapeutiche, che si devono tradurre nel ricorso alla peer review (revisione tra professionisti alla pari) e ad una Commissione di medici esterni alla struttura specialistica dove viene effettuato “il trattamento”. La Tec, recita la circolare, «non costituisce un presidio terapeutico a sé stante, ma deve necessariamente essere considerata all’interno di un programma terapeutico personalizzato, integrato con altri interventi». Le valutazioni cliniche sul paziente devono quanto meno precedere, accompagnare e seguire ogni seduta.
La ministra Bindi in premessa della circolare metteva le mani avanti affermando che il suo ministero invitava le Regioni a diffondere il testo «preso atto dei pareri espressi sulla Tec rispettivamente dall’Osservatorio per la tutela della salute mentale e dal Consiglio superiore di sanità».
“Psichiatria democratica”, il movimento fondato da Basaglia ha definito la TEC una pratica molto controversa: «un trattamento, non una terapia, approssimativo, ascientifico, empirico, utilizzato ideologicamente per far credere in una pronta risoluzione dei sintomi».
Su questa pratica, che affronta i sintomi ma non indaga certo sulle cause, valgono i giudizi che si possono dare sulle pratiche alla luce delle evidenze che, copiose, ne negano l’efficacia. Analogamente possiamo dire delle pratiche di contenzione fisica (mai del tutto rimosse in molte strutture residenziali “neuropsichiatriche”) che già nel 2010 furono oggetto di sette raccomandazioni ad opera della Conferenza delle Regioni. La Conferenza delle Regioni si poneva il fine di «introdurre nell’ambito delle proprie competenze modifiche all’assistenza psichiatrica in grado di prevenire ed evitare le contenzioni fisiche praticate nei servizi di salute mentale».
Nella Regione Lazio, che ha visto nel 2000 la chiusura definitiva del grande manicomio di Santa Maria della Pietà, con il lungo lavoro appassionato di Tommaso Lo Savio, l’esperienza della casa famiglia pubblica di Massimo Marà e, nei territori, di tanti operatori e cittadini, del sindacato della CGIL, la pratica dell’elettroshock lo si rinviene, oggi, in una determina della ASL RM 5 del 4 aprile 2023 che ne prevede l’utilizzo nel contesto di un Protocollo diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA), specifico per il disturbo depressivo maggiore. Di certo i PDTA qualificati si basano sulle migliori conoscenze scientifiche ma anche su grande sensibilità umana ed etica.
È stata prevista la strutturazione di un percorso codificato che attraversa i diversi servizi sanitari interessati e che, per i fini da perseguire, dovrebbe vedere garantiti il coordinamento e l’integrazione delle attività.
Obiettivo imprescindibile che si scontra con lo scarso funzionamento del pur sempre valido modello DSM, a causa della mancanza di operatori necessari per numero e tipologia, a fronte degli standard di personale non rispettati e stante anche la ripartizione della spesa corrente dedicata ai servizi per la salute mentale.
A tal riguardo ricorda Daniela Pezzi della Caritas, l’ultima presidente della Consulta regionale per la salute mentale di fatto chiusa nel 2022: «Quando ci riunivamo nelle Consulte delle ASL ci veniva detto dai direttori dei dipartimenti di salute mentale che il 70% del budget a disposizione veniva utilizzato per coprire le rette del privato accreditato». Una percentuale superiore anche alla media nazionale che è circa la metà.
Vi è dunque un tema classico che ritorna, quello del rapporto fra pubblico e privato in sanità, ed in psichiatria in specie: la crescita, ad esempio, dell’accreditamento di RSA, di strutture definite neuropsichiatriche, strutture residenziali sociosanitarie che hanno assunto la funzione di nuova istituzionalizzazione con i connessi noti effetti e che gradualmente rovesciano, sul piano più generale, l’impostazione condivisa a seguito della chiusura dei manicomi e con l’avvio successivo dei DSM.
Nel Lazio, da tempo, le multinazionali hanno investito in posti letto. Anche in psichiatria. Elena Canali, coordinatrice del Lazio dell’Unione Nazionale delle associazioni per la salute mentale, che ha guardato anche all’interno di queste strutture osserva, evidenziando la generale carenza di controlli da parte delle ASL: «Quando un paziente viene ricoverato in struttura passano mesi prima che passi un operatore ASL a verificare che il suo piano riabilitativo sia realizzato».
Sappiamo che, in assenza di controlli sul permanere dei requisiti dichiarati al momento dell’accreditamento, (peraltro trasmessi in autodichiarazione) anche la verifica sul più generale benessere dei cittadini presenti nelle strutture sfugge ad una valutazione dell’ente sanitario che ha sottoscritto la convenzione con la RSA. Gli stessi esiti dell’attività non vengono mai misurati e discussi dall’ente.
Alla logica che in qualche modo riproduce le dinamiche della vecchia istituzione chiusa e fuori dai controlli che sono un obbligo essenziale delle ASL, va posto, in alternativa, un modo di abitare supportato dalla specifica rete dei servizi pubblici laddove la soluzione dello stare nella propria abitazione risulti, per motivazioni diverse, di difficile attuazione. Le persone con disagio psichico traggono sicuramente beneficio da contesti integrati quali piccoli appartamenti e soluzioni similari.
Il Piano regionale di azioni per la salute mentale 2022-2024 raggruppa queste possibilità sotto il titolo “Supporto all’abitare” nell’ambito dei progetti terapeutico-riabilitativi personalizzati.
La domanda è: come si può favorire il passaggio verso l’acquisizione di una forma di autonomia abitativa della persona se si seguita a finanziare i posti letto di strutture private?
La Regione Lazio, che pure ha tante strutture sanitarie dismesse, non ha mai investito in residenzialità pubbliche per coabitazioni in appartamento mentre ha seguitato a dare spazio a posti letto di strutture “messi a disposizione” dalla CIR di De Benedetti, dal San Raffaele dell’on. Angelucci o dal gruppo francese Korian, ben presente nel Lazio, che ha acquisito Italian Hospital Group e che opera anche con strutture per pazienti psichiatrici. Dopo il Covid i bisogni psichiatrici crescono rapidamente e i privati pensano di incrementare il fatturato. Di certo, tuttavia, la riabilitazione in psichiatria non passa da queste strutture.
La salute mentale è un bene comune, un interesse della collettività e fattore di sviluppo della comunità. I servizi pubblici di salute mentale vanno finanziati e il personale dedicato va ben formato.
Nel gennaio 2023 i direttori dei DSM scrivono al presidente Mattarella e alle altre istituzioni una lettera-appello chiedendo di finanziarie la salute mentale almeno con il 5% della spesa corrente («risorse definite per i servizi pubblici dei DSM») e un piano straordinario di assunzioni di personale «per la realizzazione di una salute mentale comunitaria in grado di dare risposte integrate ai diversi aspetti biologici, psicologici e sociali» («secondo gli standard per l’assistenza territoriale dei servizi di salute mentale definiti dall’Agenas e approvati in Conferenza Stato-Regioni lo scorso dicembre 2022»).
Nel Lazio non siamo mai andati oltre il 4,4%. Starace e Baccari nel Quaderno di epidemiologia psichiatrica n. 7 del 2020 evidenziano come i dati relativi ai servizi di Salute Mentale della Regione Lazio (2015-2018) mostrino, rispetto al valore di riferimento nazionale, carenze diffuse nel merito dell’offerta di strutture territoriali (-31,6%), e semiresidenziali (-34,5%). Anche i posti letto in SPDC (-30,6%) e l’offerta residenziale (-35,0%) erano al di sotto dei valori di riferimento nazionali. La dotazione di personale risultava molto inferiore (-67,6%), a fronte di voci di spesa non significativamente difformi dalla media nazionale. I ricoveri in SPDC e la durata complessiva delle degenze erano ridotti (rispettivamente -20,3% e –13,4%). Anche le dimissioni con diagnosi psichiatrica tendevano ad essere molto inferiori alla media nazionale (-57,3%).
I bisogni di salute mentale crescono e servono azioni che non sanitarizzino gli interventi sul disagio mentale. Come non convenire che occorre articolare la risposta di salute a partire dalla casa delle persone, dai loro bisogni e risorse, tenendo conto delle loro famiglie mediante strumenti innovativi quali il budget di salute in connessione con l’attivazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati.
Ora ci si domanda come la giunta regionale intende seguitare ad attuare e adeguare un Piano in scadenza a dicembre prossimo garantendo un modello proattivo che persegue la presa in carico globale della persona con bisogni cronici complessi. Un modello che funziona se imperniato in una rete di assistenza territoriale che, alla verifica periodica dei Lea, resta ancora inadeguata in molti punti. La rete di offerta pubblica e l’apporto dell’accreditato e del no profit come “sinergicamente” operano se si seguita a mantenere in sofferenza i distretti sanitari che hanno compiti essenziali di programmazione e che sono garanzia di integrazione con il DSM, l’area delle dipendenze patologiche e con i TSMREE. A ragione, operatori e associazioni dei familiari sottolineano da tempo lo scarto fra quanto si scrive nelle disposizioni regionali e la realtà fattuale.
Il richiamo alle oggettive responsabilità delle precedenti gestioni, nel merito della condizione dei servizi psichiatrici del Lazio, non esime dalle responsabilità la giunta attuale. Come si perseguono gli obiettivi e le azioni strategiche del Piano che hanno l’ambizione di potenziare e qualificare le tutele della persona «accompagnandola in tutto il ciclo della propria vita» e con interventi «sulla persona e sul gruppo familiare e/o di appartenenza».
Veniamo, inoltre, da una pandemia che ha allargato l’area della domanda: dagli operatori della sanità, alla crescita di patologie proprie degli anziani ai tanti giovani affetti da stress Covid dipendente. La “sperimentazione”, con il finanziamento di 6,4 mln del FSE, decisa dalla Regione, di un servizio di sostegno psicologico distrettuale presso una casa di comunità, in ogni distretto, è stata compiutamente posta in essere? Quali gli esiti di questa “sperimentazione”? Con queste risorse era previsto anche il reclutamento di «tutto il personale specialistico, con contratto libero professionale, per un impegno stimato di circa 22 ore settimanali, per tre anni»?
La Regione, e non da oggi, non ama confrontarsi né con i sindacati né con la realtà delle associazioni. E un dato di cultura politica per cui la partecipazione viene declamata ma si preferisce esercitare l’autoreferenzialità, l’autosufficienza e, al massimo, il ricorso all’esterno a consulenti per le peculiarità dei temi da affrontare.
La CGIL sindacato di rappresentanza generale ha chiesto alle associazioni dei familiari, al mondo associativo impegnato per il welfare pubblico di essere insieme e di dare più forza al sindacato nel richiedere la riqualificazione ed il potenziamento della sanità con una forte attenzione alla salute mentale, da tutelare ponendo sempre al centro dei percorsi di cura la dignità della persona. Come diceva Basaglia perché «l’impossibile può diventare possibile».
Il sindacato non smetterà di mobilitarsi affinché nel Lazio le istituzioni sanitarie agiscano per una sanità pubblica, universalistica, rinnovata e adeguata alla transizione demografica epidemiologica e sociale che è in atto all’interno della comunità regionale.
Rino Giuliani Responsabile sanità dello SPI CGIL di Roma e del Lazio.