Borse vendute da Armani a 1.800 euro l’una che venivano cucite (in subappalto) in laboratori-dormitorio da manodopera cinese sfruttata e pagata in nero anche soli 2 euro l’ora. E così una borsa di pelle esposta nelle boutique della grande Casa di Moda italiana a 1.800 euro, era stata assemblata da operai cinesi a un costo di produzione di circa 90 euro e rivenduta dai fornitori alla società principale per 250.
Lo hanno appena scoperto i carabinieri del Comando per la Tutela del Lavoro inviati dal Tribunale di Milano a ispezionare quattro laboratori in provincia di Milano e di Bergamo. Oltre alle “condizioni alloggiative degradanti” e agli orari di lavoro massacranti (“più di 14 ore al giorno anche nei festivi”), gli ispettori hanno trovato gravi situazioni di “pericolo per la sicurezza”.
Il tutto documentato in un lungo rapporto con particolari agghiaccianti. Leggiamo: dalle macchine usate nei laboratori erano state eliminate numerose protezioni «al fine di aumentare la velocità di produzione del macchinario a discapito dell’incolumità dell’operatore». E ancora: alla macchina incollatrice era «stato rimosso l’inserto di plexiglass», necessario per «impedire che il lavoratore accidentalmente» rimanesse impigliato con le mani o con gli indumenti. La fustellatrice a bandiera era priva del “dispositivo di arresto di emergenza” mentre a quella tingi bordo era stato tolto “il bicchiere di sicurezza” e a quella da cucire il “carter” installato per proteggere le dita. La piaga dello sfruttamento è nazionale, non è un caso se i morti sul lavoro sono una drammatica realtà italiana.
Viste le testimonianze e le prove raccolte, il Tribunale di Milano ha messo in amministrazione giudiziaria la Giorgio Armani Operations Spa per “caporalato”. La società del colosso della moda che aveva esternalizzato la realizzazione di accessori e borse affidandola “ufficialmente” a due aziende lombarde che avrebbero poi subappaltato la produzione a laboratori cinesi. I vertici di Armani non sono indagati e il gruppo si dichiara estraneo allo sfruttamento.
Ma a leggere l’atto con cui i magistrati hanno disposto l’amministrazione giudiziaria, «quello che è emerso dalle indagini è che nell’azienda c’è una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo, della filiera produttiva della quale la società si avvale… Prassi illecita così radicata e collaudata da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business», in quanto «funzionale a realizzare una massimizzazione dei profitti, anche a costo di instaurare stabili rapporti con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori».
Insomma, secondo i magistrati inquirenti la Giorgio Armani Operations Spa sapeva dello sfruttamento. La prova? Quando i carabinieri vengono mandati dai pm nell’opificio cinese «Wu Cai Ju» a Rozzano il 15 febbraio 2024, trovano anche un dipendente della Giorgio Armani Operations Spa, N. M., che si qualifica come «ispettore controllo qualità del prodotto finito».
A questo punto, Fabio Roia, il presidente del Tribunale di Milano che per la seconda volta dall’inizio dell’anno ha messo nel mirino un colosso della moda per “sfruttamento lavorativo” ha chiesto un tavolo con i big del settore, come quello già avviato con la logistica.
E qui la domanda delle domande è: cosa fa la politica per garantire i diritti di chi lavora e per affrontare i problemi della sicurezza sul lavoro? Dov’è la sinistra? E i sindacati? E ancora: è normale delegare alla magistratura quello che la sinistra politica e sindacale non sembra più capace di fare? Altro che scioperi dei trasporti fatti il venerdì per garantire qualche ponte e aumentare così il numero degli aderenti, altro che stucchevoli diatribe tra Pd e Cinquestelle su quel campo largo che ormai assomiglia sempre di più a un Camposanto…