Candidato dalla Germania come miglior film straniero all’Oscar 2024, “La sala professori”, del regista turco-tedesco Ilker Çatak, sta avendo un inatteso successo anche di pubblico. Il week-end del 22 marzo lo vede nella top ten degli incassi delle sale cinematografiche italiane.
Opera ben girata e intelligente, il film porta gli spettatori dentro la sala professori di una scuola media tedesca, un piccolo spazio che finisce per riflettere la macro società. Con le stesse tensioni, gli stessi rapporti di potere, gli stessi conflitti razziali e di genere del mondo di fuori.
La scuola viene mostrata dal regista come un microcosmo chiuso, un’istituzione immutata da anni, una realtà stagnante in cui nessuno riesce a fare qualcosa di concreto per cambiare. E la sala professori diventa l’emblema di questa impotenza. Un luogo in cui si misurano i rapporti di potere dentro la scuola, ma soprattutto un palcoscenico in cui si fanno tante chiacchiere che alzano continui polveroni. E dove spesso – in ossequio al politicamente corretto – i fatti reali finiscono in secondo piano, sostituiti dalle opinioni.
Protagonista della pellicola è Carla Nowak, insegnante al primo incarico, una giovane donna capace e motivata che cerca di cambiare le regole di un’istituzione vecchia e inadeguata. Le giornate che Carla passa alle prese con alunni, genitori e colleghi vengono seguite in presa diretta. Con i tanti piccoli e grandi problemi che lei cerca di affrontare e risolvere. Finché una serie di piccoli furti all’interno della scuola crea agitazione in quello che sembrava un posto tranquillo. E quando i sospetti cadono su uno dei suoi studenti, solo perché nel suo zaino vengono trovati più soldi del previsto, nasce un putiferio. La prof decide di indagare personalmente, ma finisce per peggiorare le cose, scatenando una serie di reazioni a catena. Dalle accuse di razzismo (perché il sospettato è figlio di immigrati) all’abuso di potere, per le perquisizioni sugli alunni fatte in classe.
Come ha raccontato il regista, lo spunto è arrivato da fatti realmente accaduti. Nella scuola che Çatak frequentava da ragazzo, un giorno sparirono dei soldi e i professori chiesero agli alunni di mettere i portafogli sui banchi. Altri suggerimenti, come le dinamiche in sala professori, sono venuti da alcuni racconti della sorella del regista. Il tutto è servito a sostenere la tesi del film, e cioè che la scuola di oggi è la metafora di una società chiusa e decadente.
Triste realtà che alla fine del film rischia anche Carla. Succede quando lei lascia il suo pc in sala insegnanti con la telecamera accesa e pronta a registrare. Vuole scoprire chi le sta rubando i soldi dalla borsa appesa alla sedia. Detto, fatto. Nella registrazione si vedrà la mano di una donna (che indossa l’inconfondibile camicia a fiori di una segretaria) mentre afferra il portafoglio dalla borsa.
Ma in sala professori, la visione del filmato provoca un dibattito furioso, alimentato da una serie di opinioni mosse dal “politicamente corretto”. In uno scontro tra insegnanti che fa diventare il furto un fatto secondario. C’è chi sottolinea la violazione della privacy («Mi fa sentire molto a disagio che in sala professori siano stati registrati dei video a nostra insaputa»). E c’è pure chi si mostra talmente indignato per la registrazione “illegale” da minacciare di denunciare Carla alla polizia.
E così, nella “sala professori” del film, va in scena quello che si ripete quotidianamente nell’attuale mondo della “post-verità”, dove non esiste più un’unica verità. Nemmeno di fronte a prove inconfutabili. Perché nel contesto in cui viviamo il punto di vista su cui viene costruita la “narrazione” ha quasi sempre la meglio sui fatti e sulla realtà. Perché, come dimostra tanta politica ormai ridotta a pura comunicazione, la verità, quale che sia, può essere oscurata senza nemmeno la necessità di cancellarla. Basta fare in modo che alla maggioranza della gente (cittadini, consumatori o elettori che siano) la realtà dei fatti interessi poco o niente.