Sovranista in patria e moderata in versione export fin dal suo primo giorno da capo del governo, Giorgia Meloni ha appena deciso il cambio di passo. Sottolineando la sua identità di destra anche in ambito Ue, per tentare la spallata alle europee di giugno.
Lo slogan con cui adesso si presenta capolista Fdl in tutte le circoscrizioni («scrivete Giorgia e cambieremo l’Europa») rimanda all’ambizione perfino ostentata di «mandare la sinistra all’opposizione» in Europa. La campagna elettorale della Meloni, personalizzata fino all’eccesso, è di fatto un referendum su di sé. Insomma, un grande sondaggio per testare il consenso e accrescere il potere anche in Europa.
Fare il pieno di voti le permetterebbe infatti, il giorno dopo le elezioni, di diventare ago della bilancia nelle nomine della nuova commissione di Bruxelles. Una decisa crescita dell’Ecr, il gruppo dei conservatori europei di cui Meloni è presidente, potrebbe perfino spostare a destra la maggioranza di centrosinistra che da anni governa nell’Unione.
Se le cose stanno così, considerando la posta in gioco, si tratta di una mossa abile, ma anche rischiosa. Perché la partita a poker che negli ultimi anni ha spinto alcuni premier in ascesa a trasformare una normale elezione in un referendum personale non è mai finita bene.
Due casi per tutti. Massimo D’Alema, che ad aprile del 2000 si dimise da presidente del Consiglio dopo una sconfitta in una banalissima elezione regionale che aveva voluto trasformare in un referendum su di sé. Alla fine del 2016 tocca a Matteo Renzi dimettersi da rampante capo del governo dopo il referendum elettorale sulla sua riforma costituzionale bocciata dagli elettori con il 59 per cento di “no”.
Adesso però anche Giorgia Meloni azzarda col maxisondaggio personale associato a un’elezione (questa volta le europee di giugno). Con il rischio però di finire – come accaduto a Renzi e D’Alema – sul piano inclinato di una crescente impopolarità. A quel punto la “donna sola al comando” potrebbe pagare molte cose: i conti fuori controllo del Bilancio statale e l’abnorme deficit italiano in rapporto al Pil, ma anche il modo, da molti considerato “autoritario” con cui ha fino ad oggi ha interpretato il ruolo di capo del governo.
C’è la sovraesposizione mediatica in Rai, e non solo, compresa l’insofferenza verso i pochi giornalisti che osano fare domande. Poi ci sono le polemiche e gli scontri con gli intellettuali di sinistra che hanno riempito pagine e pagine. Dalla querela al filologo Luciano Canfora, appena «rinviato a giudizio per diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni», fino al monologo sul 25 aprile dello scrittore Antonio Scurati cancellato dalla Rai.
Infine la mela avvelenata di tante nomine nella solita Rai e in altre aziende di Stato con l’ascesa di uomini di cui si sottolinea prima di tutto la “vicinanza” alla premier. E così Stefano Pontecorvo e Bruno Frattasi (presidente di Leonardo e capo della cyber security nazionale), presenti a Pescara (alla conferenza programmatica di Meloni candidata alle Europee), si fanno fotografare mentre mostrano la maglietta con lo slogan elettorale di Fratelli d’Italia.
La foto rimanda a un’altra famosa immagine simbolica: quella che nell’estate del ’95 immortala Silvio Berlusconi nella sua villa alle Bermuda, mentre fa jogging con i fedelissimi Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Galliani. Tutti dietro al Cavaliere con la stessa, identica divisa bianca indossata dal capo…