C’è un grande assente, la lobby delle armi, nelle decine d’indagini giudiziarie che continuano a scuotere la politica in molti paesi dell’Unione europea. Con accuse di abusi e ipotesi di corruzione che si abbattono su ministri, primi ministri, amministratori locali e imprenditori sospettati d’aver gonfiato affari e guadagni grazie ai favori di qualche politico amico.
Sta succedendo in Italia, con il terremoto abbattutosi sul governatore della Liguria Toti, sisma che poche settimane prima aveva scosso la Puglia e il presidente della Regione Michele Emiliano. Ma i danni maggiori sono stati registrati a novembre scorso in Portogallo, con l’ex premier e segretario socialista Antonio Costa che ha scelto di dimettersi in seguito a una nota della Procura (ma non era nemmeno indagato) provocando così lo scioglimento del Parlamento ed elezioni anticipate che hanno mandato il PS all’opposizione. Invece in Spagna, l’omologo Pedro Sanchez, sfiorato a sua volta da un’indagine giudiziaria per traffico d’influenze (in cui è coinvolta sua moglie) a pochi giorni dalle elezioni catalane, ha deciso di resistere alle pressioni del Partito Popolare che chiedeva le dimissioni. Finché il “caso” è stato archiviato grazie alla storica vittoria elettorale in Catalogna del Partito Socialista guidato da Sanchez, che il 12 maggio scorso ha messo fine a 13 anni di predominio indipendentista.
Al di là delle questioni di merito, della solidità delle accuse e di eventuali responsabilità tutte queste indagini giudiziarie hanno però lo stesso obiettivo. Combattere la corruzione portando alla luce relazioni pericolose tra politici corrotti e imprenditori senza scrupoli che portano a casa centinaia di migliaia di euro grazie a favori, appalti e concessioni pubbliche ottenuti a suon di bustarelle.
Ma se le cose stanno così è decisamente curioso che nella sua caccia a corrotti e corruttori la magistratura inquirente continui a fare le pulci a tanti business (energie alternative, estrazione di litio, concessioni portuali e via di seguito), ignorando o quasi l’industria bellica. Eppure il nuovo “complesso militar-industriale” Ue nato una decina d’anni fa su modello Usa e in crescita esponenziale dall’inizio della guerra in Ucraina ha tutte le caratteristiche per indurre in tentazione molti dei suoi attori e quindi meriterebbe un’occhiata attenta.
Nel suo rapporto sulle armi in Europa pubblicato a fine 2023, Greenpeace attribuisce alle spese militari nei paesi NATO dell’Unione Europea, una crescita quattordici volte superiore al loro PIL. E ancora: negli stessi paesi, mentre la spesa pubblica è aumentata complessivamente del 35% in un decennio, l’acquisto di armi è cresciuto del 168%. E un altro salto è previsto entro la fine di quest’anno, con una spesa stimata di 383 miliardi di dollari, 30 più del 2023.
Siamo quindi di fronte a un business enorme, generato da un’industria (quella bellica) che necessita più di qualsiasi altro settore dell’appoggio della politica. Infatti: a decidere le spese militari sono i governi, che poi comprano le armi di cui hanno bisogno le Forze Armate. Ma non è tutto, perché nelle aziende che producono mezzi militari e sistemi di difesa lo Stato ha spesso una forte presenza azionaria. Succede in Germania, in Francia, in Spagna e anche in Italia, dove il ministero dell’Economia detiene circa un terzo del pacchetto azionario di “Leonardo”, cioè della ex Finmeccanica.
Ecco quindi giustificata una certa diffidenza per questo nuovo “complesso militar-industriale”, tanto per usare un’espressione che andava di moda negli Stati Uniti all’epoca delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. La cosa curiosa è che a inventarla e a usarla per primo non fu un intellettuale di sinistra o un militante pacifista ma il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower.
Lo fece nel suo discorso di commiato del 17 gennaio 1961, trasmesso per radio e televisione. E così l’ex generale che aveva guidato le forze alleate in Europa nel secondo conflitto mondiale chiudeva i suoi otto anni alla Casa Bianca mettendo in guardia il popolo americano contro i pericoli e i rischi rappresentati dall’intreccio di affari e di interessi dell’industria delle armi con politica e forze armate. Si trattava, spiegò agli americani, di tenere gli occhi aperti visto l’enorme potere e i possibili abusi di un sistema “in crescita esponenziale” che aveva battezzato sinteticamente come “complesso militar-industriale”. E da cui – avvertiva infine – «nei consigli di governo dobbiamo guardarci».
Sono parole più attuali che mai e su cui vale la pena di riflettere ogni volta che le Borse volano sulle ali dei titoli legati alle guerre in corso alle porte di casa nostra. Ma anche ogni volta che dalla Nato, dall’UE o da capi di Stato europei come il francese Macron arrivano parole che non escludono una mobilitazione militare contro la Russia.