Sulla scena politica europea si sono presentati negli ultimi anni movimenti e forze politiche che hanno ottenuto rilevanti consensi elettorali proponendo soluzioni fortemente restrittive della democrazia e delle sue garanzie come una risposta alle tante difficoltà derivanti dalle grandi trasformazioni in corso.
L’accentramento del maggior potere nel solo governo mantenendo in vita un sistema elettorale più o meno manipolato – una nuova specie di “governo monocratico” – è ciò che accomuna queste esperienze, e il processo avviene in genere con due modalità convergenti: l’indebolimento e il condizionamento degli altri poteri – parlamento, magistratura, comunicazione – e profonde modifiche dell’assetto costituzionale e delle leggi elettorali.
In Italia l’attenzione e le proposte del governo Meloni si sono concentrate fin da subito su due modifiche costituzionali: l’elezione diretta del “premier” e la separazione delle carriere dei magistrati tra requirenti e giudicanti.
L’istituto della elezione diretta del capo del governo proposta dal governo Meloni non ha riscontro in nessuna democrazia parlamentare. L’unico paese nel quale si è tentata, nel 1996, una esperienza simile è stato Israele. Ma l’instabilità dei governi che tale modifica aveva generato consigliò dopo solo 5 anni, nel 2001, il suo abbandono a favore una soluzione fondata invece sulla cosiddetta “sfiducia costruttiva” – soluzione stabilizzatrice dei governi già ampiamente sperimentata in Germania – per la quale un governo espressione della maggioranza parlamentare può essere sfiduciato solo se in parlamento si formano una maggioranza e un capo del governo alternativi. In caso contrario si torna al voto.
Ma anche nei paesi nei quali è prevista l’elezione diretta del presidente, come ad esempio Stati Uniti e Francia, l’elezione del parlamento viene effettuata in modo distinto da quella del presidente, proprio per garantire – con due voti separati – la autonomia della funzione di controllo del parlamento sul governo, essenziale in una democrazia. E può accadere, ed è accaduto, che per decisione degli stessi elettori la maggioranza parlamentare non coincida con quella presidenziale.
La proposta Meloni viola questo principio. Secondo il testo proposto dal suo governo, il presidente del consiglio eletto avrebbe infatti comunque una sua maggioranza parlamentare, garantita per mezzo di uno speciale e automatico premio di maggioranza. A questo proposito non si deve dimenticare che il premio di maggioranza – che fa diventare maggioranza una minoranza – è una invenzione tutta italiana, il cui primo utilizzo fu con la ben nota legge Acerbo del 1923. E oggi il premio di maggioranza non è previsto dalla legge elettorale di nessun grande paese europeo. Qualcosa di simile esiste solo in Grecia, Malta e San Marino.
Ma la proposta Meloni prevede anche che la caduta del governo comporti lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni. La autonomia e l’indipendenza del parlamento sarebbero così azzerate perché la sua attività e la sua durata sono direttamente dipendenti da quella del governo in carica e non invece viceversa, come dovrebbe essere in una Repubblica parlamentare.
Questa obiezione potrebbe essere aggirata, secondo alcuni, prevedendo la possibilità di un eventuale secondo governo nella stessa legislatura. Ma così la situazione sarebbe anche più grave: il primo governo, guidato dal presidente eletto, sarebbe infatti debolissimo, potendo essere sostituito in qualunque momento dal secondo governo, guidato peraltro da un presidente non eletto, e che resterebbe però in carica sino alla fine della legislatura.
E stiamo parlando di un parlamento, quello italiano, già oggi strutturalmente indebolito da molti fattori, a cominciare dalle modalità di elezione vigenti, che non consentono agli elettori una scelta personale dei propri rappresentanti, e da prassi decennali di aggiramento dei suoi poteri, come ad esempio la procedura largamente usata per evitare votazioni parlamentari indesiderate: decreto-legge del governo, maxiemendamento del governo, voto di fiducia al governo.
Questa procedura blindata è stata spesso giustificata come una diretta conseguenza della debolezza dei governi e delle maggioranze. Ma il governo Meloni, pur avendo una ampia maggioranza, ha ugualmente utilizzato questa procedura, come dimostra il fatto che, dalla data della sua costituzione sino al 30 aprile 2024, ha chiesto ben 52 voti di fiducia, quasi 3 voti di fiducia al mese.
Il parlamento è stato invece eccezionalmente coinvolto sulla non approvazione del Trattato europeo del MES, il cosiddetto Meccanismo europeo di stabilità, ma solo perché il governo Meloni non ha voluto assumersi direttamente, di fronte al Consiglio Europeo, la responsabilità della bocciatura del Trattato.
Non si deve dimenticare infine che punto forte dell’ordinamento costituzionale italiano si è rivelato essere, nel corso degli anni, il ruolo di equilibrio e supplenza attribuito al Presidente della Repubblica.
La proposta Meloni, limitandone i poteri e le prerogative, indebolisce e rende oggettivamente marginale questo ruolo, a tutto vantaggio del ruolo del presidente del governo vincitore delle elezioni, e ciò sarebbe non solo pericoloso per l’equilibrio democratico del nostro paese, ma finirebbe per produrre una ulteriore spinta alla asprezza dello scontro politico senza alcuna possibilità di composizione, fattore questo che provoca disordine e non certo maggiore governabilità.
Anche la seconda proposta di modifica della Costituzione del governo Meloni, preannunciata dal ministro Carlo Nordio, riguarda un altro punto decisivo in un sistema democratico, quello della autonomia e indipendenza della magistratura e della garanzia di correttezza delle indagini su reati penali.
L’indipendenza della magistratura era diventata argomento di discussione, in Italia, a partire dagli anni di Silvio Berlusconi. E la separazione dei magistrati requirenti e dei magistrati giudicanti in due carriere distinte, uno dei cavalli di battaglia più conosciuti.
Una apprezzabile mobilità dei magistrati tra le due funzioni si era verificata negli anni precedenti il 2006. Ma poi, a partire da tale data, era entrato in vigore il Decreto legislativo n. 160 che aveva imposto numerosi vincoli alla possibilità per un magistrato di passare dalla funzione giudicante alla requirente o viceversa, e i passaggi da una funzione all’altra si erano drasticamente ridotti.
Leggendo una statistica elaborata dal Consiglio superiore della magistratura, si scopre ad esempio che su 2.517 magistrati entrati in servizio dal 2005 al 2017 solo 44 hanno chiesto un cambio da requirente a giudicante o viceversa, 1 solo ha chiesto 2 cambi, nessuno più di due cambi. Un totale, quindi, di 46 cambi di funzione su 2.517 magistrati, una percentuale trascurabile a tutti gli effetti.
E tale percentuale si sta ora avvicinando allo zero, tenendo conto delle ulteriori e forti restrizioni imposte a questi trasferimenti dalla recente legge 17 giugno 2022, n. 71 promossa dal governo Draghi.
Sorge allora la domanda: perché chiedere una modifica della Costituzione per separare normativamente le carriere dei magistrati requirenti e giudicanti se il problema dei passaggi da una funzione all’altra è ormai irrilevante e le carriere sono già, di fatto, separate?
La risposta del governo Meloni arriva già nella prima audizione in parlamento del ministro Carlo Nordio presso la Commissione giustizia della Camera il 7 dicembre 2022.
Che il problema non sia il passaggio dei magistrati da una funzione all’altra lo ammette subito lo stesso Nordio citando i paesi anglosassoni, nei quali i passaggi da una carriera all’altra sono facili e frequenti.
La ragione che porta alla separazione delle carriere, secondo Nordio, sta nel fatto che «il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo – e sottolineo al mondo – che eserciti un fortissimo potere senza nessuna responsabilità. Perché il pubblico ministero italiano, dopo l’entrata in vigore del codice del 1988, è il capo della polizia giudiziaria, ma a norma della Costituzione che ho citato prima gode delle stesse garanzie di indipendenza e di autonomia del giudice».
La separazione delle carriere dei magistrati, secondo la visione del governo Meloni, è dunque solo il presupposto necessario per una operazione ben più incisiva: la titolarità delle indagini penali sarà trasferita alle autorità di polizia e il magistrato requirente diventerà un «pubblico ministero» al quale resterà il compito, secondo le parole del ministro, «di dare alle indagini della polizia una veste legale e una garanzia di legalità», lasciando così alla polizia medesima l’ultima parola sulle attività di indagine e l’effettivo potere di decisione.
Nel caso di dubbio – di metodo o di merito o di opportunità – la autorità di polizia si rivolgerà ovviamente ai propri referenti naturali (questore, capo della polizia, ministro dell’interno) procedendo, indirizzando, o fermando le indagini sulla base del riscontro politico ricevuto.
In altre parole, se condurre o no, e con quali modalità, un’indagine giudiziaria non lo deciderà più un giudice, ma il questore o chi per lui nella scala gerarchica governativa.
E questo passaggio delle indagini dalla magistratura alla polizia coinvolgerà anche la questione della obbligatorietà della azione penale, anch’essa peraltro prevista dalla Costituzione.
«Non possiamo ammettere» dice sempre il ministro Nordio «che siano le procure della Repubblica, ciascuna in base a criteri individuali e arbitrari, o addirittura i singoli magistrati che scelgono casualmente, o per ragioni statistiche, un fascicolo ora da questo ora da quell’altro armadio, a decidere che cosa perseguire e cosa no. È questione di coerenza ed è questione di civiltà giuridica».
Serve quindi – ed ecco il secondo vero motivo della separazione delle carriere – che finisca l’obbligo della azione penale e che si stabilisca una «discrezionalità vincolata a dei criteri che sono dettati all’inizio dell’anno, come l’editto pretorio, da un organo che se ne assume la responsabilità politica della priorità».
Il problema delle modifiche alla Costituzione richiede infine che la loro discussione avvenga coinvolgendo l’insieme delle forze politiche rappresentate in parlamento e che non si restringa il tutto ad una questione fiduciaria del governo in carica. Così, infatti, è stata discussa e approvata la Carta costituzionale del 1948 e ogni suo cambiamento strutturale andrebbe affrontato con lo stesso metodo.
Per durare nel tempo ed essere rispettata da tutti, la Costituzione deve infatti essere condivisa nella sua elaborazione con la massima ampiezza possibile. Essa è, per le forze politiche, la regola comune di convivenza e non la regola imposta da una maggioranza alla minoranza.
Questo metodo di forzatura maggioritaria si è già rivelato sbagliato e improduttivo nelle precedenti esperienze dei governi Berlusconi nel 2006 e Renzi nel 2016, i cui tentativi di modifica costituzionale sono stati approvati in parlamento ma poi respinti nel referendum dagli elettori italiani. E si deve dire che fu un errore di metodo anche la riforma del Titolo V sulle autonomie regionali che, anche se confermata nel referendum del 2001, era stata approvata in parlamento dalla sola maggioranza.
Tutto fa pensare purtroppo che dopo i tentativi Berlusconi e Renzi, avremo anche il caso Meloni. Non solo la discussione nel merito viene ristretta alle forze di maggioranza e si è ormai imboccata la strada insensata del «o la va o la spacca», ma ci si aggrappa anche, come sta accadendo nel corso della discussione al Senato, a sofismi regolamentari per accelerare le procedure di approvazione riducendo la discussione al minimo possibile.