Della serie: tragedie dimenticate. Che fine hanno fatto i circa ventimila bambini ucraini letteralmente deportati su ordine di Vladimir Putin vittime di una brutale e sistematica opera di “rieducazione”? Se ne occupa solo la diplomazia vaticana, con cautela e discrezione; magri, finora. I risultati: ne sono tornati per ora solo poche centinaia. Sono oltre un milione i minori in fuga dalle bombe russe in Ucraina: spesso soli o affidati a parenti, amici, perfino sconosciuti, pur di metterli in salvo.
Non solo in Ucraina. Sono 200 milioni i minori che vivono in zone dove si combattono guerre e si affrontano livelli di fame senza precedenti: dal 2020 il loro numero è aumentato di quasi il 20 per cento. Conflitti a causa dei quali milioni di persone muoiono, e nessuno si commuove, indigna. Non si parla più di Afghanistan dove i talebani hanno riconquistato il potere dopo il ritiro degli Stati Uniti. Si uccide e si muore in Nigeria: una guerra senza quartiere condotta dai terroristi di Boko Haram, attentati feroci per sterminare gli uomini, rapire donne e bambini. Si uccide e si muore in Myanmar: l’hanno definita “la guerra più sconosciuta del mondo”, un conflitto “a bassa intensità”, con scontri intermittenti ma non per questo meno tragici: ogni anno migliaia di vittime. In Siria la guerra è cominciata con le proteste nel 2011 contro il regime di Bashar al-Assad; migliaia di civili massacrati e non se ne vede la fine. In Etiopia si combatte e si muore dal novembre 2020: centinaia di migliaia di sfollati e massacri della popolazione civile. In Yemen la guerra tra sciiti e sunniti secondo l’ONU, ha provocato almeno 400mila morti. Un elenco sterminato di guerre dimenticate.
Trentacinque anni fa, il massacro a piazza Tienanmen a Pechino. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 vengono uccise centinaia, forse migliaia di persone: massacrate dalle milizie del regime cinese che reprimono studenti e lavoratori colpevoli di invocare libertà, democrazia, giustizia. Da allora il Cina è cambiato poco se non nulla: il regime di Xi Jinping fa di tutto per cancellare le tracce del massacro a Tienanmen. Eppure, ci sono ancora dei manifestanti in carcere; ne conosciamo quattordici: Zhou Guoqiang; Guo Feixiong; Chen Shuqing; Lu Gengsong; Xia Lin; Zhao Haitong; Xu Na; Chen Yunfei; Xu Guang; Huang Xiaomin; Cao Peizhi; Zhang Zhongshun; Shi Tingfu; Tong Hao.
Non fa più notizia quello che accade in Iran. Le prigioni di quel paese stanno diventando centri di uccisioni di massa. Nel solo 2023 si sono censite ufficialmente 853 condanne a morte, oltre la metà, 481 per esattezza, per presunti reati di droga. È il numero di esecuzioni più alto dal 2015. Una vera e propria carneficina, per il 2024 non andrà meglio, dal momento che alla data del 20 marzo sono 95 le persone ufficialmente uccise. Nel 2023 le autorità iraniane hanno intensificato l’uso della pena di morte per seminare la paura nella popolazione e aggrapparsi al potere all’indomani della rivolta “Donna Vita Libertà”. Così la pena di morte viene applicata su larga scala per reati di droga al termine di processi di assai dubbia regolarità.
Le autorità iraniane rifiutano di rendere pubblici i dati sulle condanne a morte e sulle esecuzioni, molte delle quali avvengono in segreto. I Tribunali rivoluzionari iraniani hanno emesso 520 delle 853 condanne a morte eseguite nel 2023. Hanno competenza su un’ampia serie di azioni come i reati di droga e sulle attività che le autorità considerano “reati contro la sicurezza nazionale”. Praticamente su tutto. Sono privi d’indipendenza, sono influenzati dalle forze di sicurezza e dai servizi d’intelligence, usano regolarmente “confessioni” forzate estorte con la tortura ed emettono condanne al termine di procedimenti grossolanamente irregolari. Nel 2023 c’è stato anche uno sconcertante aumento delle condanne a morte nei confronti di rei minorenni.
Non solo per droga. In Iran si può essere condannati a morte anche per adulterio e blasfemia, “apostasia” e in generale per “offese al profeta Maometto”. Le condanne hanno riguardato anche la massiccia protesta antigovernativa che da mesi scuote il Paese al grido di Donna Vita Libertà. Almeno sette fin ora quelle eseguite, un paio anche in pubblico dopo il caso Mahsa Amini, la studentessa curdo-iraniana morta mentre era detenuta dalla polizia “morale” per aver indossato male il velo islamico obbligatorio. Particolarmente perseguitata risulta essere la minoranza baluci. I prigionieri di quest’etnia costituiscono circa il 20 per cento dei condannati a morte. Spesso le accuse sono approssimative, non c’è accesso alla rappresentanza legale e le “confessioni” dei reati sono estorte sotto tortura per essere usate come prova per emettere la condanna a morte.
Per queste tragedie, per questi eccidi, per questi crimini la comunità internazionale non presta attenzione; resta indifferente e silente. Sostanzialmente complice.