Due storie, a conferma che viviamo in un paese dove la magistratura fa paura. La sentenza viene da Milano. La Corte d’Appello assolve un ex sindacalista in servizio all’aeroporto di Malpensa, accusato di violenza sessuale nei confronti di una hostess che nel marzo del 2018 si era rivolta a lui per una controversia sindacale.
L’uomo in primo grado era stato assolto perché la parola della donna non era sufficiente, secondo i giudici non era stata raggiunta la prova su quanto denunciato dalla hostess. La parola dell’uno contro quella dell’altra: nel dubbio hanno assolto. Sconcerta, tuttavia, che per i giudici i venti secondi di passività trascorsi dal tentativo di violenza dell’uomo alle proteste della donna sarebbero bastati (apro le virgolette) «a non dare prova del dissenso della hostess». Venti secondi non danno la prova del dissenso, quindici o dieci invece sì? Su che base e valutazione si quantificano i secondi? Perché diciannove secondi possono essere violenza, venti invece no? Chi e come ha cronometrato i secondi per stabilire se si è vittima o se si è consenzienti?
Il secondo episodio dalla provincia di Brindisi, Cellino San Marco. Un amministratore di quel comune all’alba di un giorno di aprile del 2015 viene arrestato: cella di isolamento, 25 giorni di carcere, otto mesi e mezzo ai domiciliari.
Due condanne e il 10 luglio in Cassazione: nella stessa sezione dove ora siede un magistrato che, ai tempi dell’arresto, era Pubblico ministero. Tutto in regola: sono cose che possono accadere quando una vicenda processuale si trascina per nove anni: l’accusatore diventa giudice di se stesso, accade perché attualmente le carriere non sono separate.
Per inciso: la presunta tangente sarebbe di mille euro; non si è mai capito chi sarebbe il corruttore perché il processo non lo ha accertato. La delibera chiamata in causa è giudicata legittima dal Consiglio di Stato. L’amministratore risulta incensurato, vai a sapere perché non gli hanno riconosciuto come sempre si fa, le attenuanti.
Ora attende la sentenza definitiva. Come detto, nella sezione della Cassazione che lo giudicherà, ha ritrovato il suo accusatore: il Pubblico Ministero che lo ha fatto arrestare non è nel collegio giudicante – sarebbe stato incompatibile – ma è collega diretto di giudici che lo giudicheranno. Nulla di illegittimo, è bene precisarlo, la legge lo consente. L’idea, però, che il suo accusatore lavori quotidianamente con i giudici che dovranno decidere, in via definitiva, se è colpevole o no, fa comunque pensare. Nessuna accusa nei confronti di nessuno, ma è un dato di fatto che con la separazione delle carriere una situazione del genere non si potrebbe verificare.