Due miti infranti. È stato un buon procuratore distrettuale, a Manhattan South. Assieme a Louis Freeh, poi diventato capo dell’FBI, Richard Martin e altri, hanno inferto colpi formidabili che annichiliscono le cinque famiglie della Cosa Nostra di New York.
Poi si candida sindaco della città. New York è una metropoli con enormi problemi, mille etnie, sterminata: i raffinatissimi quartieri dell’Upper East Side di Manhattan che convivono con le desolate zone del Bronx… Città tradizionalmente liberal, sa bene che lui, Rudolph Giuliani, figlio di immigrati italiani, pur candidato “indipendente” è nell’animo un repubblicano. La sua vita privata è il paradiso dei giornali “pulp”, ci vanno a nozze con i suoi matrimoni falliti, il suo recidivo esser fedifrago, le spietate accuse dei figli.
New York bada al sodo: la “tolleranza zero” fa diminuire drasticamente delitti e crimini; in omaggio alla “broken window theory” si dichiara guerra a ogni sorta di degrade, compresi barboni per strada, graffiti, immondizia, appunto le finestre rotte… Times Square si trasforma in una sorta di parco dei divertimenti, i locali di strip e vendita di materiale pornografico costretti a chiudere o trasferirsi… Tutti sembrano contenti e soddisfatti, pazienza se la polizia usa spesso maniere brutali denunciate da Amnesty International.
Giuliani si monta la testa, pensa di essere credibile come candidato alle elezioni per presidente degli Stati Uniti d’America. Alle primarie repubblicane (quelle che per la prima volta incoronano Donald Trump), viene sbaragliato. Lestamente si accoda alla nascente corte del tycoon, ne diventa uno dei più ascoltati consiglieri, suo avvocato personale; lo assiste e difende nelle cause più strampalate, come quando sostiene che in alcuni stati i risultati delle elezioni sono stati truccati. Accuse che gli si ritorcono contro, ne deve rispondere anche in tribunale.
Poi con “the Donald” i rapporti si guastano, lo accusa di aver gonfiato le parcelle professionali. La sua reputazione va a rotoli, impietose le fotografie lo immortalano con l’inchiostro della tintura per capelli che gli cola sulle guance. È costretto a dichiarare la bancarotta, viene anche radiato dall’albo degli avvocati. Gli ultimi servizi delle TV lo mostrano ingobbito, fragile, incerto nel camminare, altro che il baldanzoso procuratore che teneva testa ai rocciosi avvocati di John Gotti e degli altri boss della mafia. Oggi fa quasi pena vedere questo super campione della legge e dell’ordine ridotto a un patetico rudere senza arte né parte.
Ricordate Camelot? Evocando la corte di re Artù, la regina Ginevra, Lancillotto, i cavalieri della tavola rotonda, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso gli Stati Uniti avevano “incoronato” il clan Kennedy come riedizione di quel mitico regno di pace, giustizia, prosperità. Pazienza se tra Boston e le tenute a Hyannis Port e Martha’s Vineyard, si è poi consumato tutto e di più: se il patriarca Joseph era un complice di mafiosi con simpatie naziste la cui fortuna si fondava sul contrabbando dell’alcool al tempo del proibizionismo e altre poco commendevoli attività.
Pazienza se la vita privata sua e dei numerosi rampolli era costellata da scandali tacitati e comportamenti più che discutibili, abusi a sfondo sessuale, consumo industriale di alcolici e stupefacenti: vicende silenziate a suon di dollari e grazie ad “amici” potenti e conniventi.
Il culmine con l’affaire del Chappaquiddick: il 18 luglio 1969, per la negligenza di Ted Kennedy, il più giovane dei tre fratelli, muore la ventottenne Mary Jo Kopechne; Ted, ubriaco fradicio, guida un’autovettura che sbanda e precipita da un ponte. La ragazza rimane intrappolata nell’auto. Lo stesso Ted ammette di essersi riuscito a liberare e di essersi allontanato e di aver denunciato l’incidente alle autorità dieci ore dopo l’accaduto. Nel frattempo Mary Jo muore affogata all’interno del veicolo.
Uno scandalo che gli costa la candidatura per la Casa Bianca, ma tuttavia è pur sempre eletto senatore nel suo feudo in Massachusetts, fino alla morte. Grazie al denaro e al potere il mito resiste, alimentato dalla morte sul campo dei due fratelli maggiori, John e Robert, uccisi il primo a Dallas già presidente; l’altro a Los Angeles, durante la campagna elettorale. Da allora il clan dei Kennedy non si è più ripreso.