Molte donne afghane si sono battute per l’emancipazione femminile e contro l’estremismo religioso islamico. La regina Soraya Tarzi, all’inizio del 1900, combatte in Afghanistan per la parità dei diritti con gli uomini. Adesso la pittrice Shamsia Hassani lotta con le sue opere contro la repressione dei diritti delle donne del regime talebano. Ce ne parla Maria Luisa Berti.
Dopo il ritiro delle forze occidentali, in Afghanistan sono tornate le violenze e i soprusi del regime talebano contro il popolo e in particolare contro le donne afghane a cui sono vietati lavoro e istruzione, non possono frequentare le palestre, gli hammam (impianti termali), i bagni pubblici, i parchi. Nel 2021 immediate furono le proteste in piazza contro la negazione dei diritti. Nell’aprile 2024 è giunta notizia che l’emiro Hibatullah Akhundzada ha annunciato, tramite la tv di stato, che saranno reintrodotte, secondo la legge islamica della Sharia, la fustigazione e la lapidazione, anche in pubblico, delle donne accusate di adulterio.
I media e i social tacciono sulle misere condizioni del popolo e in particolare delle donne in quel paese lontano, desolato e abbandonato, in mano alla spietata dittatura dei Talebani.
Eppure c’era un tempo in cui si prospettava una società più giusta che riconosceva il valore delle donne. Era il 1913 quando Soraya Tarzi sposò il principe Amanullah Khan, figlio dell’Amir afghano Habibullah. Il principe era di idee liberali, favorevole alla monogamia e con la moglie cominciò a pensare a riforme per tutelare i diritti del suo popolo.
Soraya Tarzi era nata nel 1899 in Siria, dove la sua potente famiglia di origine afghana era in esilio. Potè tornare in patria perché il re Habibullah consentì il ritorno degli esuli afghani. Quando Amanullah Khan ereditò il trono alla morte del padre cominciò una rapida modernizzazione del paese. Tra il 1927 e il 1928, i reali visitarono l’Europa dove furono festeggiati e salutati dalla folla. Nel 1928 ricevettero lauree Honoris causa dall’Università di Oxford per essere stati promotori di valori occidentali illuminati, governando uno stato cuscinetto tra l’Impero indiano britannico e il desiderio di espansione dei sovietici. In occasione dell’incoronazione Amanullah rafforzò l’autonomia dall’Inghilterra e annunciò che il ministro dell’Educazione sarebbe stata la regina. Soraya, che era cresciuta in un’ambiente liberale e aperto, indossava abiti di foggia europea e andava a caccia a cavallo. Fervente femminista ottenne, anche con l’appoggio del marito, la parità di diritti per le donne del suo popolo, aprì la prima scuola femminile e un ospedale per le donne.
«L’indipendenza -ebbe a dire Soraya- è di ciascuno di noi ed è per questo che la celebriamo. Pensate che la nostra nazione al suo esordio avesse bisogno solo di uomini per servirla? Le donne dovrebbero a loro volta fare la loro parte come fecero nei primi anni della nazione e dell’Islam». Dovevano perciò le donne afghane contribuire a ogni livello sociale. Tutto ciò generò una gran rabbia tra i tradizionalisti, che arrivarono all’aperta ribellione quando si diffuse la voce che i reali volevano impedire l’ingerenza dei genitori nel matrimonio delle figlie: significava perdere il compenso matrimoniale, una specie di dote al contrario. La rivolta portò ad un colpo di stato e all’esilio in Europa della famiglia reale.
Quando negli anni ‘Novanta del 1900 i talebani presero il potere, le donne afghane furono emarginate dalla società, costrette al loro unico ruolo di madri. La situazione attuale con il ritorno del governo talebano è molto grave ma la resistenza delle donne continua.
In un articolo di Cristiana Cella (Altreconomia 268 – Marzo 2024) viene riportata l’esperienza di un’attivista afghana, che vive a Kabul e riesce a lavorare in un ufficio privato, quasi sempre da casa. «Esco il meno possibile –dice- adesso ho davvero paura. Da circa un mese la strada è diventata molto pericolosa». Nei villaggi e nelle città controlli e arresti arbitrari sono all’ordine del giorno.
Ti arrestano se manifesti, se non porti il velo e anche se hai il velo e anche se sei accompagnata da un uomo… senza motivo. «Ti prendono, ti picchiano, ti infilano in una macchina e ti portano, in genere, a Pul-e-Charkhy, la più grande prigione di Kabul. Lì puoi essere vittima di qualsiasi violenza. A volte non si sa più nulla delle ragazze che vi vengono portate, altre vengono invece rilasciate. Ma non c’è nessun sospiro di sollievo. Per le famiglie l’arresto è una vergogna, un grave disonore che ricade interamente sulla ragazza. La loro vita diventa un calvario, vengono isolate, biasimate e persino vendute. So di due giovani che si sono suicidate dopo essere uscite di prigione, non so se per quello che hanno passato tra le mani dei Talebani o tra quelle dei loro familiari».
Uscire per una donna afghana è quindi molto pericoloso per cui si deve restare a casa. Nonostante tanta oppressione, le donne afghane si uniscono e, se non possono più manifestare, utilizzano i social media e in gruppi operano in clandestinità soprattutto per promuovere l’istruzione delle bambine e delle ragazze, favorendo così la loro emancipazione in famiglia e nella società, dove l’estremismo religioso nega loro ogni diritto.
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