Guido Reni nel 1678 ritrasse la madre con il velo in testa nel dipinto “Ritratto di una gentildonna”. Il quadro è conservato nella Pinacoteca Nazionale di Bologna ed è considerato uno dei più bei ritratti del Seicento «… sia per la profondità psicologica con cui l’artista si approccia al soggetto raffigurato, sia per lo straordinario accordo tonale con cui seppe rendere le vesti e l’incarnato della donna…» (Giuseppe Nifosì).
Anche Raffaello nel 1516 aveva dipinto “La donna velata”, in cui la nobildonna ritratta, Margherita Lupi, porta il velo sulla testa. Di Jan Wermeer è “La ragazza col velo” (1666-1667) dipinto ad olio conservato al Metropolitan Museum di New York, in cui è ritratta un’adolescente con un velo sulle spalle, forse la figlia dell’artista.
La maggior parte dei veli in uso tra le nobildonne europee proveniva da Bologna dove, grazie ad una straordinaria macchina, il filatoglio, si era raggiunta un’alta qualità nella produzione dei veli e dei fili di seta ritorti. Così, dalla fine del XIV secolo fino al XVIII secolo, Bologna ebbe il primato per la produzione dei veli fino all’avvento della Prima Rivoluzione Industriale.
Vere e proprie fabbriche erano i filatoi che, nascosti nelle case, erano azionati dalle ruote dei mulini, posti nelle cantine, che sfruttavano le acque delle chiaviche, condotti sotterranei derivati dai canali. La lavorazione della seta era tutelata dal segreto ed erano previste dure pene per chi tradiva. Cesare Dolcino e Giovanni Vincenzo de Fradino furono, infatti condannati a morte in contumacia per aver portato tale segreto fuori da Bologna, forse a Trento.
Tale lavorazione si faceva in tutta la città tranne che per l’allevamento del gelso e per la raccolta del baco da seta, i cui bozzoli però si vendevano nell’antica Piazza Maggiore, oggi Piazza Galvani. Qui era stato costruito un padiglione in legno, per i banchi della fiera dei bachi e dei bozzoli, coperto da un tendone detto, dalle farfalle dei bachi, pavillon in francese e pavaion in dialetto bolognese, da cui deriva il nome del Portico del Pavaglione che fiancheggia la Piazza Galvani e la Via dell’Archiginnasio. Qui venivano anche riscosse dai daziari le tasse che servivano per la costruzione della Basilica di San Petronio.
Nel 1200 il gelso bolognese era già conosciuto e la sua coltivazione era diffusa in tutta la provincia. Secondo Pier Crescenzi nel 1305 la pianta era quella del gelso nero (morus nigra). A fine secolo, forse proveniente dalla Sicilia, cominciò la coltivazione del più pregiato gelso bianco (morus alba) che per la sua qualità finì per soppiantare il gelso nero tanto che alla fine del 1500 era quasi scomparso.
Dai bozzoli, immersi in acqua bollente, veniva tratto il filo lungo centinaia di metri che era poi raccolto in matasse. Tale operazione è detta trattura e veniva fatta dalle donne. Nel mulino da seta dalle matasse il filo di seta veniva trasferito nei rocchetti mediante l’incannatura che veniva effettuata nei solai. Qui vi lavoravano le donne e soprattutto i bambini che, con le loro piccole mani, riuscivano ad annodare meglio i fili spezzati. Nel piano sottostante i rocchetti venivano poi collocati nei torcitoi, i filatogli rotondi, dove più fili venivano attorcigliati e ritorti per renderli più resistenti.
Alla fine del XVII secolo a Bologna funzionavano 119 mulini da seta mossi da 353 ruote idrauliche. Verso la fine del ‘500, vi trovavano lavoro circa 15.000 persone (uomini, donne, bambini) su una popolazione di circa 60.000 abitanti. I filatoi, il lavoro salariato e quello a domicilio, il libero mercato costituirono un sistema di fabbrica simile a quello della prima rivoluzione industriale.
Le fabbriche erano proprietà di privati, spesso di mercanti che ne affidavano la gestione ai maestri filatoglieri. I mercanti avevano un ruolo importante perché prelevavano i bozzoli dai contadini per venderli al mercato in città e, a lavoro finito, esportavano veli, orsogli o organzini, drappi di seta (soprattutto per vie d’acqua) in Francia, Germania, Inghilterra… perfino nell’Impero Ottomano. Bologna divenne un importante centro industriale e commerciale. Poi i filatoi si diffusero in Piemonte, Lombardia, Veneto: producevano seta più grezza ma a costo più basso per cui l’industria bolognese andò decadendo. Ai primi del ‘900 funzionavano ancora pochi setifici che andarono lentamente in disuso.
Il Filatoio fu introdotto da Borghesano Ventura di Riccone da Barga, in provincia di Lucca, dove aveva una sua casa. Fuoriuscito dalla sua città dopo le devastazioni dei ghibellini, si trasferì a Bologna e chiamò il figlio Bolognino, in onore della città che l’aveva ospitato. Qui fece costruire questo macchinario fuori Porta Castiglione, presso il convento della Misericordia, utilizzando le acque del Canale di Savena. A Lucca invece i filatoi erano azionati grazie alla forza animale e umana, dei bambini soprattutto per la loro corporatura. Nel 1341, ottenuto il permesso da Matteo Pepoli, signore di Bologna, l’attività originaria fu trasferita nell’attuale Via Castellata in una casa dove, ancora oggi al n.4 è visibile l’antico portale in cotto con una targa in ricordo del primo Filatoglio alla Bolognese. Molti altri mulini da seta furono poi edificati lungo il Canalazzo, che derivava le sue acque dal Reno. La famiglia divenne così ricca e potente da assumere il cognome Bolognini.
In Piazza Santo Stefano al n.11si innalza il grandioso Palazzo Senatoriale Salina Amorini Bolognini che Bolognino decise di far costruire per dare alla famiglia una nobile residenza, ma la costruzione fu realizzata solo tra il ‘500 e il ‘600.
Perché trasferirsi a Bologna? Perché distava circa 150 km da Lucca e, arrivati a Prato, era possibile percorrere l’antica via della lana e della seta fino a Bologna. Via ancor oggi percorribile lungo borghi e luoghi immersi nel verde dell’Appenino.
Oggi la lavorazione della seta, dalla coltivazione del gelso al prodotto finito, si fa ancora a mano solo in Sardegna, nella città di Orgosolo, che deriva il suo nome dal filo sericeo prodotto dal “baco da seta – razza Orgosolo”, di colore giallo, senza l’aggiunta di altre tinture. La seta era indispensabile per il fazzoletto ornamento del costume sardo. Una antica tradizione da far conoscere e da tutelare, così come per l’antica lavorazione della seta a Bologna.