La salute mentale nel Lazio avrebbe bisogno di una giusta chiave di lettura. Difficile arrivare ad una valutazione corretta dell’attuazione della legge 180 se al riguardo si assume una impostazione apologetica o, in senso opposto, negazionista.
Penso, piuttosto, ci si debba domandare perché nel Lazio un pensiero veramente rivoluzionario quale quello di Franco Basaglia abbia avuto una attuazione che, a 46 anni dalla sua approvazione, ci fa ritrovare, come problema, impostazioni e nodi di potere che con la legge 180 e la chiusura dei manicomi ci si proponeva di sciogliere. Ci si domanda come andare oltre la legge 180, regionalmente e nazionalmente, pur nella riconferma di tutti i suoi valori e dell’impostazione generale del 1978.
Nel Lazio sono 1,5 milioni le persone che soffrono di disturbi, il 27,1% della popolazione attualmente residente. La stessa realtà sociale è cambiata rispetto a quando fu approvata la riforma psichiatrica.
Cambiata e articolata e negli ultimi anni, soprattutto nella capitale, essa richiede prevenzione, approcci nuovi, servizi diversamente organizzati, personale più numeroso, nuove figure professionali, lavoro integrato. La istituzionalizzazione delle persone è in forte crescita. Si ritiene che il 70% del budget a disposizione venga utilizzato per coprire le rette del privato “accreditato” risultando, secondo la ex presidente della Consulta regionale della salute mentale -oggi sciolta-, superiore alla media italiana che è circa la metà.
Budget regionale per le rette psichiatriche che è in crescita: dai 69 milioni di euro del 2019 è arrivato a 86,5 milioni di euro per il 2024 (si tratta di 51.600 euro all’anno – in media – per posto letto, 4300 al mese). Le soluzioni alternative alle strutture residenziali invece si devono finanziare dal più generale budget di ASL.
Così, come si finanzia adeguatamente la salute mentale sul territorio? Su iniziativa delle forze di governo ad inizio dell’estate, nelle Camere, sono venuti avanti provvedimenti di revisione della legge 180 basati su una logica securitaria e asilare.
Un orientamento regressivo che preoccupa molto. Con lo sguardo a quanto sta accadendo in sede legislativa ci si interroga sull’attuazione della legge 180 nel Lazio:
- vi è un quadro di ridefinizione dei servizi sanitari e sociali rinvenibile anche nell’attuazione dei provvedimenti attuativi delle missioni 5 e 6 del PNRR (il cui orizzonte finale è alla fine del 2026) e del DM 77.
- è in scadenza il Piano regionale di azioni per la salute mentale 2022-2024.
Appare utile, concretamente e trasparentemente, che si faccia il punto sul raggiungimento degli obiettivi attesi che devono attuare i principi cardine del Piano: l’umanizzazione delle cure, i servizi di prossimità, l’integrazione con la comunità, gli interventi fondati sui fattori protettivi, la comunicazione trasparente Lo stesso piano da l’obiettivo di «migliorare la qualità di cura dei servizi, aggiornare i loro modelli operativi soprattutto nella loro capacità di presa in carico globale e riabilitativa, sviluppare e sostenere la diffusione di programmi di salute mentale improntati alla recovery e all’innalzamento del funzionamento sociale».
Per un sistema di cura territoriale e di comunità. L’assessore regionale ai Servizi sociali seguita a porre l’accento sulle “infrastrutture organizzative” di cui al PNRR, che certo hanno un peso per il miglioramento delle condizioni materiali degli “utenti” ma molto poco conto si tiene dei problemi relativi alle pratiche e agli operatori. Non si affronta adeguatamente una grande questione quale quella delle modalità operative spesso diverse nei diversi ambiti territoriali.
Il quadro normativo descrive servizi che spessissimo prescindono dalle pratiche, così che regole formali non desunte dalle complessità del malato (contesto incluso), ma “sussunte” diventano spesso regole formali, burocratiche.
Nel Lazio andare oltre la legge 180, intanto a legislazione immutata, vuol dire formalmente ridiscutere impianti esistenti ripensandoli dentro i non completati processi di integrazione sociosanitaria, con l’intento non solo di raggiungere una maggiore efficacia ma soprattutto per rendere effettiva quella inclusione, fondamentale, delle persone con disagio mentale che, ad oggi, i servizi pubblici non sono in grado di includere.
La differente impostazione, fra il prima e il dopo della “legge Basaglia”, la diversità, dovrebbe proprio essere l’attivazione “pubblica” della inclusione, nelle sue articolate modalità e non quella della separazione fra “malati” e gli altri. Non sulla carta delle delibere ma in concreto. Per andare oltre la medicalizzazione diffusa molto possono fare al riguardo i comuni e i sindaci.
Il tema della psichiatria di comunità interessa direttamente gli enti locali dato che con le nuove politiche del Welfare mix municipale i principi ispiratori della legge di riforma psichiatrica trovano anche sul versante sociale più facile attuazione. Le rappresentanze sociali devono provare a promuovere nei territori un fronte comune che comprenda i comuni. I servizi attuali sono dentro una logica di prevalente sanitarizzazione, conseguenza delle scelte pubbliche fatte, dall’inizio e nel tempo, e che incidono su persone, operatori e servizi, sul ruolo delle comunità.
L’eccesso di medicalizzazione dei servizi, la relazione non paritaria dei servizi rispetto all’Università, l’eccesso di residenzialità privata che era alla base della lotta per la 180 e la chiusura dei manicomi si ritrovano ancora nel Lazio.
La rete pubblica regionale, stando al Rapporto Siep 24, evidenzia punti di forza e criticità quali i re-ricoveri a 30 giorni e la continuità ospedale territorio a 14 giorni, che mostrano valori peggiori della media nazionale.
Si ricordano le camicie di forza, i contenimenti al letto, le lobotomie, le molte pratiche sbagliate che, ad esempio, nel manicomio di Santa Maria della Pietà (chiuso definitivamente ma solo dopo 22 anni dalla legge) erano usate nei padiglioni organizzati per categorizzazioni ascientifiche del disagio mentale.
Oggi i contenimenti sono sempre in uso, l’elettroshock è regolamentato dal 4 aprile 2023 nell’ASL RM5 sotto la veste di un PDTA per il disturbo depressivo maggiore.
Se quanto volevamo escludere nella tutela della salute mentale permane malgrado normative di cambiamento, impostazioni condivise con OMS e Unione Europea, vuol dire che molto non è andato come doveva andare e, per questo, bisogna mettere mano al processo attuativo della legge 180 per adeguarlo a quanto scritto nella stessa riforma.
Ci si domanda non tanto e non solo sull’insufficiente spesa per la salute mentale (nel Lazio solo lo 2,7 del FSR) e per la carenza di personale, quanto su come tradurre un pensiero eversivo, quale quello di Basaglia, divenuto legge, nelle pratiche dei servizi che spesso, sempre più numerosi sono residenziali, privati: Rsa, cliniche in una logica lontana dalla riabilitazione e che prescinde dal territorio.
Per la salute mentale al centro degli interventi c’è la malattia ma il suo perseguimento non può prescindere dall’azione sui determinanti di salute: la casa, il lavoro, la socializzazione. Ambiti dirimenti la cui esecutività resta al margine, materia per una discussione nel merito che il Consiglio regionale non affronta.
La legge regionale n 49 del 1983, che ha impostato i servizi dipartimentali per la salute mentale e che ha avviato gli interventi, già mostrava uno scarto con l’idea di Basaglia per cui i servizi sono la risposta ai bisogni della persona e, salute e malattia, sono modalità esistenziali di quella stessa persona che in un modo o nell’altro esprime i suoi bisogni.
Franco Basaglia, che ha cambiato per sempre il trattamento del paziente e che tante speranze aveva suscitato alla notizia dell’assunzione della responsabilità dell’attuazione della “sua” legge nel Lazio, prematuramente muore nell’agosto 1980.
Una occasione unica, mancata, per partire con il piede giusto per un cambiamento di scenario del trattamento delle persone con disagio psichico e disturbi psichici che ancor più oggi appare necessario perseguire.
Rino Giuliani Responsabile sanità dello SPI CGIL di Roma e del Lazio