La questione della “Intelligenza Artificiale”, comunemente denominata “AI”, si sta imponendo come una questione di grandissima rilevanza per il nostro futuro. Ma, in realtà, stiamo già utilizzando strumenti AI da diverso tempo. L’algoritmo di ricerca di Google, ad esempio, è fondato sull’utilizzo di una rete neurale “artificiale”, tipica delle nuove tecnologie chiamate in inglese “deep learning”.
La tecnologia era stata finora percepita come un supporto alle nostre attività di elaborazione, organizzazione e comunicazione. Ma gli incrementi di potenza e velocità di elaborazione, prima impensabili, stanno determinando un mutamento – straordinario ma anche preoccupante – nella natura dei servizi e delle possibilità espressive degli algoritmi della AI.
Anche fatti singolari, in questi ultimi tempi, hanno attirato la nostra attenzione. Tra questi, ad esempio, lo sciopero degli attori e sceneggiatori di Hollywood. Non scioperavano dal 1960, ma hanno scioperato per quasi sei mesi nel corso del 2023 reclamando la definizione di regole più rigorose per l’utilizzo della Intelligenza Artificiale nel loro lavoro, proprio per evitare l’uso abusivo di immagini, la produzione di realtà virtuali e false realtà. E, sempre in materia di produzione di immagini, il 7 novembre 2024 la galleria Sotheby’s di New York ha venduto all’asta per la prima volta un quadro realizzato da un robot chiamato Ai-Da: era un ritratto del famoso matematico inglese Alain Turing, aggiudicato per 1,08 milioni di dollari.
Se quasi un secolo fa Walter Benjamin poneva il problema della riproducibilità tecnica delle opere d’arte, oggi il problema si è dunque trasformato nella riproducibilità tecnica dello stesso artista, della sua immagine, della sua voce, dei suoi testi, o nella realizzazione di opere d’arte “artificiali”, realizzate cioè da un algoritmo che opera apparentemente come un umano.
Le immagini, la scrittura, e la profilazione analitica degli utenti sono i campi nei quali gli avanzamenti della AI sono oggi più impressionanti ed efficaci.
Questo sviluppo impetuoso richiederà regole e soluzioni ancora da immaginare. E forse il primo problema da affrontare sarà proprio la velocità di questi cambiamenti, che pone a dura prova la nostra effettiva capacità di adattamento.
Gli unici fattori industriali che potrebbero rallentare nei prossimi anni la velocità di sviluppo della AI sono l’enorme fabbisogno di energia che richiedono i Centri di elaborazione dei dati e gli altrettanto grandi problemi di raffreddamento del calore prodotto dai Centri stessi. L’Agenzia internazionale dell’energia stima, ad esempio, che nel 2022 il consumo globale di elettricità per i Centri dati ammontasse già a circa 460 terawattora (TWh), una cifra che potrebbe superare i 1.000 TWh entro il 2026. Per avere una idea delle quantità, si pensi che il consumo totale di elettricità in Italia, sempre nel 2022, è stato di circa 296 TWh. E un TWh, terawattora, è pari a 1 miliardo di Kilowattora.
Attualmente il controllo e lo sviluppo delle tecnologie di AI è nelle mani di poche mega-aziende private che operano soprattutto negli Stati Uniti, mentre nel resto del mondo – pensiamo anzitutto a Cina e Russia – la gestione delle aziende di AI è sotto il pervasivo controllo degli Stati e del potere politico che li governa.
Vale dunque la pena di riflettere sulle possibili conseguenze che lo sviluppo della AI potrà determinare a partire dal nostro mondo “occidentale”, ma non sottovalutando anche le possibili interferenze intercontinentali, di cui si avvertono già segnali concreti.
Tra queste conseguenze un posto di assoluto rilevo riguarderà problemi che investono direttamente la natura e il funzionamento della democrazia politica, così come noi la conosciamo a partire dai tempi di Montesquieu, fondata non solo sul voto popolare, ma anche sulle leggi, sulla divisione dei poteri e su una comunicazione libera e responsabile.
La profilazione degli utenti del Web, nata e sviluppata per scopi commerciali, si è ormai trasformata anche in profilazione culturale, sociale, e politica con conseguenze in grado di incidere in modo rilevante sulla formazione di orientamenti politici e sugli stessi esiti elettorali. A ciò si aggiunge la introduzione, negli algoritmi selettivi dei “social networks”, di modalità di esclusione o, viceversa, di amplificazione di determinati messaggi e, infine, anche la proliferazione di attività di soggetti fittizi ma apparentemente reali.
Se le intrusioni telematiche nelle votazioni presidenziali in Romania hanno portato addirittura – un caso senza precedenti – alla ripetizione delle elezioni svoltesi nel novembre 2024, resta aperto l’interrogativo di quanto tale meccanismo “suggestivo”, gestito direttamente dagli autori o per mezzo di “influencer” operanti nei vari Paesi, abbia potuto effettivamente influenzare – in un senso o nell’altro – altre recenti e importanti consultazioni elettorali.
L’aria libertaria e scanzonata che aveva ispirato i primi decenni della Silicon Valley è infatti ormai solo un ricordo. I giganti delle nuove tecnologie hanno raggiunto bilanci e valore di capitalizzazione incredibili. Apple e Microsoft, ad esempio, registrano nel 2024 una capitalizzazione di quasi 3.000 miliardi di dollari ciascuno, una cifra dello stesso ordine di grandezza del Pil annuale di un Paese come la Francia.
La dimensione dei patrimoni e dei ricavi delle mega-aziende, anche per essere garantiti dai molti rischi del futuro, spingono inevitabilmente a condizionare il sistema politico e la sua storica tendenza regolatoria, vissuta ormai come un freno allo sviluppo delle nuove tecnologie e delle loro potenzialità. E la divisione e limitazione dei poteri finisce per essere vista non più come una garanzia, ma piuttosto come un ostacolo da rimuovere.
Nella Silicon Valley si sta anche facendo ora strada l’idea che il potere decisionale non debba più essere delegato neppure all’interno delle stesse imprese. “The Founder Mode” – la modalità nella quale il fondatore dell’impresa decide da solo, senza sentire nessuno – si chiama oggi a San Francisco questo nuovo modo autoritario, non più episodico, di dirigere.
Da questo mondo che non solo controlla il denaro, ma anche la comunicazione cosiddetta “social”, emergono dunque spinte che, in nome della necessità di uno sviluppo tecnologico senza ostacoli, pensano sia preferibile una sorta di “democrazia artificiale”, nella quale le apparenze democratiche siano mantenute, ma la sostanza venga riportata alle pulsioni e alle convenienze dei nuovi oligarchi, dominando la comunicazione con una sempre più spinta profilazione personale degli utenti, anche travolgendo elementari regole di affidabilità e verità.
Da qui il condizionamento dei processi elettorali e delle istituzioni come modalità corrente o addirittura – è il caso di Elon Musk – la decisione di infiltrarsi direttamente nelle istituzioni medesime, entrando nella cerchia ristretta del futuro governo Trump. Non a caso proprio Elon Musk, dopo l’impresa aerospaziale Space X, la costruzione di tunnel, ferrovie iperveloci e di auto elettriche con Tesla Motors, si è dedicato alla intelligenza artificiale con Neuralink Corporation, con la recente xAI per i videogiochi, con i robot umanoidi prodotti dalla stessa Tesla, con le criptovalute di Dogecoin e, infine, con l’ingresso nel mondo della comunicazione mediante l’acquisto di Twitter e la nascita di X.
L’ideologia del liberismo estremo e del caos creativo non è, a dire il vero, una novità assoluta.
Basti ricordare i nomi di Thatcher e Reagan. E già nel 1909, in un altro momento di grandi trasformazioni tecnologiche, si legge nel Manifesto del Futurismo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti: «La tecnologia deve essere un violento assalto alle forze dell’ignoto, per costringerle a inchinarsi all’uomo».
Ma l’ideologia del liberismo estremo – vecchia o nuova – che si propone di cancellare ogni regola, finirebbe – in realtà – per lasciare in vita una regola e una sola, quella che il più forte prevale sul più debole. E questo indirizzo, sempre pessimo, nell’era della AI può portare ad abusi e disastri incalcolabili.
Infine, queste grandi imprese tecnologiche e informatiche sono oggi soprattutto americane o cinesi. L’Europa è invece sostanzialmente assente dal punto di vista industriale, se non come braccio operativo di imprese extra-europee.
Ciò significa, ad esempio, che la eventuale involuzione del sistema comunicativo che si potrebbe registrare nei prossimi anni, si ripercuoterà direttamente anche sui Paesi europei, il cui grave ritardo nei settori della innovazione, sottolineato dal recente Rapporto Draghi, ci espone a possibili rischi di perdita di autonomia e, quindi, di libertà e di benessere. E a ben poco ci servirà avere approvato per primi, in Europa, un pur apprezzabile regolamento per l’utilizzo della AI entrato in vigore il 1° agosto 2024.
Il ritardo europeo può ancora essere colmato in tempi ragionevolmente brevi, ma per raggiungere questo risultato si dovrà agire con urgenza, dando vita a nuove e consistenti iniziative di rafforzamento tecnologico e imprenditoriale, e non dimenticando anche l’esempio concreto di valide esperienze della nostra recente storia europea.
Una strada – già percorsa con successo in passato – può forse essere quella di dar vita ad una impresa pubblica o pubblico-privata sul modello del CERN, nato nel 1954 – ancor prima del Trattato di Roma del 1957 istitutivo della Comunità europea – con l’adesione iniziale di 12 Stati, tra cui l’Italia, e sostenuta oggi da 24 Stati membri.
Anche allora l’Europa, infatti, si trovava in una fase di pesante svantaggio nel campo della ricerca della fisica nucleare e della innovazione tecnologica, poiché i principali centri di ricerca erano, nel dopoguerra, concentrati soprattutto negli Stati Uniti e, in parte, nella Unione Sovietica. E il CERN è divenuto, fin dagli inizi, uno dei più importanti centri di ricerca mondiali, ha prodotto anche il World Wide Web, la rete di comunicazione internet universale, offerta dal 1993 all’uso libero e gratuito dell’intero pianeta, e che ha determinato lo straordinario sviluppo delle comunicazioni che tutti noi oggi conosciamo e utilizziamo.