Il documento congressuale della CGIL, che ha registrato il consenso larghissimo degli iscritti, ricorda che interventi adeguati per dare soluzione agli effetti negativi della crisi «non potevano e non possono essere solo affidati alla contrazione del perimetro pubblico, alla centralizzazione delle risorse ed alla riduzione del debito».
Una posizione di principio che è anche una necessità per i cittadini. Infatti un effetto di ordine generale della globalizzazione liberistica è rappresentato dall’insorgenza di nuove diseguaglianze, che si sono aggiunte alle altre preesistenti. I diritti delle persone, in specie quelli riferibili alle tutele del welfare, conclamati come esigibili, nei fatti preclusi a milioni di cittadini, sono messi in discussione per molti altri.
La privatizzazione del welfare non è la soluzione. Il sindacato deve tornare ai “fondamentali”. Sempre più spesso una letteratura anche di provenienza sindacale si adagia nell’idea che il welfare debba acconciarsi ad essere la tutela per le persone più fragili o più esposte alla marginalità sociale e che per gli altri la soluzione sia, in una con la riduzione drastica del ruolo pubblico, la costituzione di un forte pilastro privato per la sanità e per il sociale un modello di sistema sociale che prevalentemente trasferisca gli oneri su singoli e famiglie che possono rivolgersi al profit che si fa impresa sociale, come nel caso dei familiari caregivers o di quelli che si impegnano direttamente con il “welfare fai da te” degli assistenti familiari, ricevendo un contributo economico dagli enti locali.
Sul SSN è in atto da tempo una discussione, ancora aperta, che vede impegnati diversi contesti istituzionali, politici, sociali, scientifici con opzioni diverse corrispondenti a diversi orientamenti politici e culturali.
Anche all’interno del sindacato si accede all’idea che il welfare evolva in “welfare civile”. Zamagni lo descrive bene: «È l’intera società e non solo lo Stato che deve farsi carico del benessere di coloro che in essa vivono».
Soluzione ragionevole alle difficoltà gravi del welfare state e con motivazioni oltre quella della crisi fiscale dello Stato. In questo modello come si sostanzia il connesso principio della “sussidiarietà circolare” e quindi come si mettono in relazione le tre sfere di cui si compone ogni società: gli enti pubblici, le imprese e la società civile organizzata?
Per ora sono molti quelli che vedono con preoccupazione il fatto che si stia tornando a un “welfare capitalism”, cioè un welfare particolaristico che non soddisfa il requisito dell’universalismo, che non ha valore per tutti, trattandosi di un atto di tipo privatistico su base volontaria. Il Congresso dello SPI CGIL di Roma e del Lazio ha chiesto, in modo fermo di fermarsi con il welfare contrattuale e di sostenere il Servizio Sanitario pubblico universalistico.
È il momento di definire bene i contorni di un modello che deve avere in se l’universalismo delle prestazioni per le persone. Intanto per la tutela della salute va fermata una deriva silenziosa verso la dequalificazione del SSN e la privatizzazione di fatto della sanità pubblica.
Dice il documento congressuale: con la Carta dei diritti universali del lavoro in termini più generali si riconferma «una scelta strategica riportando in capo alla persona che lavora una idea di eguaglianza dei diritti fondamentali indipendentemente dalla tipologia del rapporto di lavoro e la centralità della persona che lavora in relazione alla sua cittadinanza». Così per i diritti riferiti al welfare che vanno riportati in capo alle persone.
Coerentemente questa scelta per il diritto alla salute e a servizi sociali per tutti (LEA e Liveas) da tempo fortemente contrastata, deve essere sostenuta con una mobilitazione organizzata di tutta la CGIL, come da tempo afferma lo SPI CGIL.
È essenziale che si ricostruisca all’interno della CGIL un quadro in cui tutte le “categorie” e tutte le strutture territoriali assumano la condivisione del sostegno al carattere universalistico del welfare, partecipando alla mobilitazione necessaria per la vertenza nazionale sanità assunta unitariamente con CISL e UIL.
Vanno evitati i rischi di “una corporativizzazione delle categorie” del sindacato alle prese con l’acquisizione di un welfare aziendale che non è il welfare di tutti, ma che viene sostenuto finanziariamente da tutti, ivi compresi coloro che, pensionati e giovani senza lavoro, ne sono esclusi. Si tratta di un welfare che non riduce le diseguaglianze e non garantisce coesione sociale.
Osserva il documento congressuale: «Ricostruire e definire politiche nelle quali i diritti siano universali e le risorse e le possibilità non siano un privilegio di pochi ma una opportunità per tutti». Ed ancora: «Una politica per l’eguaglianza si nutre di universalità del welfare e di diritti, di redistribuzione del lavoro e della ricchezza».
Mirando a questi due obiettivi confederali va data concreta indicazione dei modi di come riportare la contrattazione integrativa aziendale alla sua effettiva funzione.
Oggi sul piano del welfare gli accordi categoriali sono intesi anche dai sindacati, in forma difensiva, come sostitutivi di un welfare che non funziona adeguatamente. Nei fatti l’azienda restituisce in parte a chi ha reso possibile il suo profitto ma il welfare universale presuppone la redistribuzione.
A 40 anni dalla legge 833 il sindacato deve aprire con il governo una vertenza nazionale sulla sanità che muova intanto dall’adeguamento della spesa media pro capite italiana a quella dei paesi europei occidentali e per i servizi sociali ad esempio, dal finanziamento adeguato per la non autosufficienza alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali e dall’avvio del Piano nazionale ad oggi assente.
La CGIL deve decidersi a portare a coerenza la sua iniziativa sul welfare. Lasciare agire in parallelo, separatamente, contrattazione sociale territoriale e contrattazione integrativa aziendale ha indebolito e indebolisce la necessaria risposta di ordine generale che il sindacato deve dare a sostegno del sistema pubblico universalistico.
A ragione il documento congressuale osserva: «Occorre garantire una gestione coerente del welfare contrattuale con le sue finalità sociali, superando le attuali modalità di utilizzo che molto spesso si riducono ad una erogazione di benefit, anche grazie ad una normativa fiscale distorcente che andrebbe al più presto modificata».
Occorre farlo. Lo si poteva fare da tempo. È evidente che anche nel modo in cui come CGIL si è fatta contrattazione sociale territoriale evidenzia limiti e criticità che interrogano il gruppo dirigente.
Il sindacato deve impegnarsi a riconoscere e rimuovere limiti ma anche modalità di relazione spesso, nel Lazio, meramente procedurali o formalistiche. Gli esiti della negoziazione sociale con le controparti istituzionali, deludenti ed esigui, testimoniano di un passato che molti nella CGIL auspicano venga superato.
Sovente, a diversi livelli, la teorizzazione e la pratica della disintermediazione e la centralizzazione delle decisioni delle controparti pubbliche ha inciso negativamente sull’agire negoziale nei territori.
Tante cose hanno iniziato a cambiare nelle relazioni con le controparti istituzionali e, se si guarda all’Osservatorio unitario della contrattazione sociale dei sindacati dei pensionati, si vede come anche la negoziazione sociale nei territori inizia a dare frutti.
Nelle dichiarazioni del presidente della Regione Lazio Zingaretti dopo le elezioni ci sono stati impegni di discontinuità e per il superamento di criticità note e di ritardi conosciuti. A distanza di mesi si stenta a riconoscere il cambiamento in relazione agli avanzamenti ed ai tempi di realizzazione degli impegni presi con gli elettori.
Con il comune di Roma permane una totale assenza di interlocuzione con le organizzazioni sindacali sui temi sociali. Una cosa inammissibile che dovrebbe avere una risposta sindacale simmetricamente adeguata.
La CGIL va nei prossimi giorni a congresso nel Lazio rilanciando la parola d’ordine “unità e autonomia”. È questa una consapevolezza che appare da tutti condivisa perché indubbiamente l’unità e l’autonomia rappresentano un patrimonio permanente della CGIL che gli iscritti reclamano siano implementate e non depauperate.
La lezione di Novella e di Santi sul valore in sé dell’autonomia da padroni, governi e istituzioni resta tutt’ora valida.
Il che non sempre è stato un punto fermo.
In questi anni di trasformismo della e nella politica, il tema della unità e dell’autonomia è un tema che ancor più convintamente va recuperato, un tema innanzitutto di cultura politica che i quadri più giovani della CGIL, il futuro dell’organizzazione, devono sempre avere a mente avendo l’accortezza di tenere sempre salde le radici nel passato della CGIL.
Il documento congressuale sottolinea anche un altro punto importante: «L’esito del voto segna la sconfitta della sinistra, la mutazione e il cambio dei rapporti di forza nella destra, l’affermazione del M5S, consegnandoci un quadro politico incerto e non privo di rischi».
Come si può osservare l’esito del voto non segna quanto piuttosto mette il timbro a secco notarile sulla sconfitta della sinistra, su forze politiche che, spiace, hanno temuto come la peste di diventare socialdemocratiche ed hanno scelto percorsi di sfondamento al centro fino ad arrivare a prefigurare di divenire come il partito del presidente Macron.
Vittime del distacco che esse hanno prodotto dai sentimenti, dalla cultura, dai bisogni, dalla vita materiale e dunque dal consenso di un popolo e di un paese che, spiace, non si sono riconosciuti in loro e che oggi guardano altrove.
Quant’altri a sinistra hanno preso le distanze da questa traiettoria non sono stati parimenti in grado di rappresentare quel “pensiero lungo” di cui anche, dal e nel sociale, la CGIL afferma di voler essere propositiva.
La CGIL appare convinta del fatto che c’è bisogno di poter contare sulle proprie idee, sulla forza che sarà in grado di mettere al servizio delle stesse, sulla unità e autonomia nei confronti di tutte le controparti.
È questo un punto di partenza per aprire una stagione forte di promozione dell’unità sindacale. Da questo punto di vista gli anni che la CGIL si lascia alle spalle sono anni di occasioni perdute.
Un errore come CGIL è di non aver provato, pur nelle difficoltà e nelle differenze rispetto a CISL e UIL, a promuovere con le stesse una unità che vada oltre quella (altalenante) d’azione. E questo il lascito di Fernando Santi nel suo saluto alla CGIL nell’ottavo congresso nazionale di Bologna.
L’identità, cui ogni sindacato tiene, non può essere considerata come alternativa all’unità sindacale. Dice il documento confederale: «…questo, a nostro avviso rafforza la necessità di autonomia e di continuità dell’iniziativa del sindacato confederale».
Ognuno nella sua collocazione deve dare continuità all’iniziativa sindacale, nelle condizioni date e alla luce dei cambiamenti avvenuti e in atto nella nostra società.
Nello specifico con la contrattazione sociale territoriale che comprende quella sociosanitaria e al suo interno quella sanitaria, di primaria importanza per un servizio sanitario per tutti pubblico, universalistico.
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