Parigi brucia e la rabbia dei gilet gialli non sembra esaurita. L’8 dicembre, al termine del quarto sabato di guerriglia, con più di 1500 fermi nella sola Parigi, il governo francese ha saputo solo esprimere “soddisfazione” per la situazione tornata sotto controllo. Con il presidente Macron rintanato all’Eliseo sempre più smarrito e isolato, mentre la piazza continuava a chiedere la sua testa e la caduta del governo Philippe. Gli 8.000 poliziotti schierati contro i diecimila manifestanti degli Champs-Élysées confermano il fatto che la politica ha fallito affidandosi a una risposta di polizia.
E così Macron, l’ex ministro delle Finanze che nel 2017 è diventato il più giovane presidente della repubblica francese, l’uomo che nel 2016 ha inventato En marche, movimento che poi avrebbe cancellato i socialisti e i vecchi partiti conquistando la maggioranza in Parlamento, sembra già politicamente finito. Secondo gli ultimi sondaggi, la sua popolarità è precipitata al sotto di quella di Hollande, il leader socialista che lo aveva preceduto all’Eliseo.
È successo che di fronte alla protesta della gente comune che va in piazza contro l’ennesimo aumento delle accise sui combustibili, Macron ha sbagliato tutto. Prima mostrando i muscoli e resistendo per giorni e giorni a tutte le richieste, poi – dopo tre settimane di guerriglia urbana – con l’improvvisa marcia indietro della sospensione (per sei mesi) delle nuove accise. Inevitabile la risposta dei gilet gialli «troppo tardi e troppo poco».
La protesta spontanea per l’aumento delle imposte sui combustibili, nata nella Francia profonda costretta a muoversi solo in auto, si era infatti trasformata in un’insurrezione nazionale contro Macron, in una rabbia fuori controllo alimentata dal malcontento dei “dimenticati”, di quella maggioranza che lavora sempre di più, guadagna sempre lo stesso, vive sempre peggio e in tutto l’Occidente alimenta i movimenti populisti.
A questo punto gli appelli lanciati dal premier Eduard Philippe alla vigilia dell’8 dicembre per evitare la manifestazione («capisco la Francia che lavora molto» e «nessuna tassa vale quanto l’unità dei francesi») più che stonati, suonano patetici. Segni di debolezza che fanno il paio con il tweet del presidente che si congratula con la polizia che è riuscita ad evitare il peggio.
Ma le cause della caduta di Macron sono paradossalmente le stesse che solo due anni fa ne hanno decretato la rapidissima ascesa: la “liquidità” d’un potere costruito al di fuori dei partiti e senza alcun rapporto con i corpi intermedi della società. En marche il movimento (né di destra, né di sinistra) fondato da Macron nel 2016 è poco più d’una sigla, un brand da lanciare con la pubblicità e la comunicazione.
Non è un caso se il rancore che i gilet gialli riversano sull’inquilino dell’Eliseo viene motivato (come si legge sui social) proprio dal fatto che appare tanto, troppo distante dai problemi della gente comune.
Quello di En marche sembra il destino dei movimenti mediatici che hanno conquistato il potere intercettando il voto di protesta contro i partiti tradizionali. Ma la politica liquida non funziona. Per capirlo basta confrontare la Francia di Emmanuel Macron con il piccolo Portogallo guidato da Antonio Costa, segretario del Partito socialista e capo d’un governo che si regge sull’appoggio esterno del Partito comunista e della sinistra radicale. In Portogallo, il problema delle accise sui carburanti è esploso prima che in Francia. A giugno scorso, con il fermo degli autotrasportatori. Dopo un primo tentativo di resistenza da parte del ministero dell’Economia che non voleva ridurre le imposte sul gasolio, gli autotrasportatori hanno minacciato il blocco a oltranza. A questo punto il governo ha avviato e chiuso la trattativa con i sindacati. Gli scioperi sono rientrati e dal mese di ottobre il prezzo dei carburanti è sceso in media di 16 centesimi al litro.