Uniti si vince. Il Primo maggio i sindacati hanno sancito la ritrovata unità. Maurizio Landini (Cgil), Annamaria Furlan (Cisl) e Carmelo Barbagallo (Uil) si sono abbracciati e hanno festeggiato insieme a Bologna la festa dei lavoratori. Hanno sfilato e tenuto un comizio insieme alla manifestazione dal titolo “Lavoro, diritti, stato sociale – La nostra Europa”.
Il Primo maggio i sindacati si sono trovati uniti nelle manifestazioni di tutte le città italiane. Uniti per cambiare l’Europa, l’Italia, il precarizzato mondo del lavoro. Landini ha scandito: «Il messaggio che dobbiamo dare è di unità. Dobbiamo unire ciò che è stato diviso».
Giusto, divisi si perde. Il discorso di Maurizio Landini suona anche come un ‘mea culpa’, una conversione del Primo maggio. Landini, appena da pochi mesi è stato eletto segretario della Cgil, e subito ha imboccato la strada dell’unità sindacale. Già lo scorso febbraio, assieme ad Annamaria Furlan e a Carmelo Barbagallo, ha anche organizzato una grande e riuscita manifestazione unitaria a Roma contro il governo grillo-leghista. La sintesi era: «Il cambiamento siamo noi».
Tuttavia negli anni scorsi, da segretario della Fiom (la federazione dei metalmeccanici della Cgil), aveva rotto l’unità del sindacato. In particolare aveva attaccato la proposta di Sergio Marchione, invece accolta dalla Fim e dalla Uilm (le federazioni dei metalmeccanici della Cisl e della Uil), di modificare il contratto di lavoro aumentando la produttività. Aveva anche contestato i referendum tra i lavoratori, tenuti a Mirafiori e a Pomigliano D’Arco tra il 2010 e il 2011, che diedero il via libera agli accordi. E da allora divampò la lotta senza quartiere non solo con la Fiat Chrysler Automobiles di Marchionne, la controparte aziendale, ma anche con la Cisl e la Uil.
Il Primo maggio è intervenuto anche Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica ha sottolineato il valore di una occupazione dignitosa: «Senza lavoro rimane incompiuto il diritto di cittadinanza». Ha richiamato tutti alla «dignità» che il lavoro «non deve perdere». Un discorso sacrosanto: il diritto al lavoro e i diritti dei lavoratori sono tra i principi cardine della Costituzione, sono i fondamenti identitari e programmatici della sinistra. Ma il capo dello Stato controfirmò il Job Act, la legge delega voluta nel 2014 da Matteo Renzi, che compresse tanti diritti assieme al sostanziale annullamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (prevedeva una decisa tutela dai licenziamenti).
Quella riforma del mercato del lavoro, ironia della sorte, fu realizzata cinque anni fa da un governo di centro-sinistra. Fu un grave errore, fu un colpo alle proprie radici di sinistra. L’intera storia della sinistra si svolge a difesa dei lavoratori, dei ceti popolari, dei soggetti più deboli. Il Partito socialista nacque nel 1892 con l’obiettivo di garantire il suffragio universale, la libertà, l’uguaglianza e lo stato sociale. Il programma prevedeva la piena occupazione, la riduzione dell’orario settimanale, la sicurezza e la stabilità del lavoro (soprattutto per le donne e i ragazzi supersfruttati), il compenso salariale equo e il diritto di sciopero. Una parte di questi traguardi vennero raggiunti nell’era giolittiana nel primo Novecento, poi la dittatura fascista uccise libertà e diritti.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda guerra mondiale arrivò la Repubblica, la democrazia, la libertà, il boom economico, lo stato sociale e le tutele dei diritti dei lavoratori. Furono superati tanti ostacoli fino al crollo della Prima Repubblica nel 1992-1994. Poi cominciò un nuovo periodo ricco di speranze e di delusioni. Modernizzazione, progresso, uguaglianza andarono fuori sincrono. Il centro-sinistra, soprattutto, ha perso la bussola apparendo come l’espressione delle élite e non più dei ceti popolari. La sinistra vince quando fa il suo mestiere, come in Spagna e Portogallo. Lì governano i socialisti, la destra e i populisti sono stati battuti.