Sono uno dei cinque milioni e mezzo di italiani residenti all’estero e iscritti all’Aire, l’associazione dei connazionali che vivono in un altro Paese. Come tutti quelli nella mia situazione, ogni volta che ho bisogno di un documento o di un pezzo di carta ufficiale sono costretto a rivolgermi agli uffici dell’ambasciata, dove spesso la burocrazia risulta ancora più lenta, cieca e complicata di quella che si trova in Italia.
Dal momento che vivo in Portogallo, il confronto con gli altri residenti temporanei appartenenti all’Unione europea è inevitabile. Le regole dovrebbero essere le stesse, ma spesso non è così. L’anno scorso ho chiesto una surroga di mutuo. La banca italiana mi ha presentato la lista dei documenti necessari (residenza, codice fiscale, eccetera) che naturalmente dovevo produrre in Portogallo, farli tradurre da un interprete autorizzato, autenticare dall’ambasciata italiana a Lisbona e spedirli a Roma.
Dopo due ore ottengo i documenti necessari, compreso uno stato di famiglia, documento che in Portogallo non esiste e che un’impiegata gentile sostituisce con un’autocertificazione vidimata e timbrata dal responsabile del suo ufficio. Faccio tradurre il tutto e corro al consolato italiano dove dovrei pagare un’imposta di una decina di euro e ottenere l’autentica. Ma non è così. Perché sul timbro dell’ambasciata non appare la scritta “copia conforme all’originale”. Quindi i miei documenti sono inutilizzabili. E allora? Allora mi spiegano che devo rivolgermi a un notaio o a un avvocato abilitato per farmi autenticare la traduzione. Cinquanta euro e supero anche l’ultimo ostacolo. A questo punto non capisco nemmeno a che cosa mi serve il timbro del consolato italiano. Ma senza quel timbro la banca italiana non può accettare i documenti.
Dopo un paio di settimane, parlando con un ex collega tedesco che risiede in Portogallo e ha avuto bisogno di documenti da inviare in Germania, scopro che non ha dovuto far autenticare la traduzione da un notaio portoghese. Perché la dichiarazione di conformità era inserita nel timbro della sua ambasciata: “Conforme all’originale”.
E non parliamo di quando bisogna rinnovare un documento in scadenza. Per me il rinnovo del passaporto è stato un calvario. A un mese dalla scadenza consegno il documento in un Commissariato italiano. Il poliziotto, gentile, mi dice che – come iscritto Aire – avrei dovuto presentare la richiesta di rinnovo al consolato italiano di Lisbona, ma che comunque non c‘erano problemi, perché dopo una rapida verifica la Questura di Roma avrebbe inviato rapidamente la mia richiesta a Lisbona. Massimo una settimana. Ma la consegna del nuovo passaporto dipendeva dai tempi burocratici del mio consolato. Procedura lunga: l’ambasciata protocolla la domanda di rinnovo e la gira all’Aire che fa la stessa cosa. Insomma, secondo la sua esperienza ci vorranno dai due ai tre mesi. Impallidisco, fra due mesi devo andare negli Stati Uniti.
Torno in Portogallo e chiedo notizie del mio passaporto. Niente da fare, mi dicono che non risulta niente. Insisto. Dico che non è possibile, perché la richiesta della Questura dovrebbe essere arrivata da almeno 15 giorni. La risposta è: «Può darsi, ma con ogni probabilità la sua richiesta non è stata ancora protocollata e quindi…». Chiedo un appuntamento. Niente da fare. Devo registrarmi sul sito del Consolato e fissare un appuntamento via Internet. Lo faccio, ma la prima data disponibile è fra 20 giorni.
Ci siamo, vado in Consolato. La richiesta è stata inoltrata all’Aire, sembra che ci sia un altro problema di protocollo. A questo punto dico all’impiegata che se non mi danno il passaporto in tempo per il viaggio negli Usa li porto davanti al Tribunale di Strasburgo per violazione di un diritto fondamentale di un cittadino dell’Ue, la libertà di movimento. Lo dico senza alzare la voce, in maniera ferma ma educata. L’impiegata mi chiede di attendere e si eclissa. Venti minuti dopo torna e mi dice che è tutto risolto. L’autorizzazione è stata inoltrata via Pec alla Questura di Roma che adesso mi darà il passaporto.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvio verso l’uscita, quando il carabiniere italiano di guardia nell’ufficio consolare mi si avvicina e mi fa: «Scusi, ma non è bello parlare male all’estero del proprio Paese». Lo guardo incredulo e me ne vado.