La Brexit è un chiodo fisso di Boris Johnson. L’obiettivo è l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea il 31 ottobre con o senza un accordo. Il mezzo è una spallata costituzionale: la sospensione per 5 settimane (“prorogation”) dell’attività della Camera dei comuni.
Boris Johnson, il populista del partito conservatore, ha fatto partire un colpo basso dalle imprevedibili conseguenze: ha chiesto e ottenuto dalla regina Elisabetta II la messa fuori gioco per oltre un mese del Parlamento per impedire un eventuale voto contro la Brexit o per consentire l’uscita solo sulla base di un’intesa con la Ue. Il paese inventore del Parlamento assiste alla chiusura del Parlamento per motivi di bottega: non è una buona notizia. La spallata ha fatto crollare la sterlina.
Le opposizioni, in testa il laburista Jeremy Corbyn, hanno attaccato ferocemente il premier conservatore: è «una minaccia alla democrazia». Corbyn considera disastrosa una uscita dalla Ue senza un accordo. Anche molti deputati conservatori hanno pesantemente attaccato la decisione.
Ma Johnson ha respinto tutte le accuse con due argomentazioni: 1) vuole portare Londra fuori dalla Ue rispettando il risultato del referendum del 2016, 2) è prassi istituzionale la “prorogation” quando un nuovo governo (è il suo caso) deve presentare il proprio programma all’esame del Parlamento. C’è il piccolo particolare che, in genere, la “prorogation” dura due-tre giorni ma non cinque settimane arrivando fino al 14 ottobre, il giorno del “discorso della regina” (Elisabetta II leggerà in Parlamento il programma del governo Johnson).
Può succedere di tutto. Una petizione ha raccolto un milione e mezzo di firme contro il congelamento di Westminster. I deputati delle opposizioni ma anche parte dei conservatori sono in rivolta. Ci saranno scintille quando il 3 settembre riaprirà la Camera dopo la pausa estiva, ci saranno le barricate contro la successiva chiusura fino al 14 ottobre. A metà ottobre il premier, che poggia su una maggioranza incerta, potrebbe vedere bocciate da Westminster le sue scelte programmatiche («la nuova eccitante agenda del governo»). Quella del premier è stata una mossa poco britannica e molto simile alle intricate e spregiudicate manovre parlamentari italiane.
Johnson si prepara alla soluzione più traumatica. Sta predisponendo il Regno Unito all’”hard Brexit”, all’uscita dall’Unione europea senza un accordo. Il primo ministro britannico ha bocciato senza appello l’intesa siglata da Theresa May con Bruxelles (più volte respinta dalla Camera dei comuni) e ha chiesto «un accordo nuovo e migliore». Alla fine di agosto ha fatto un giro nelle capitali europee per arrivare a un’intesa soprattutto per lasciare aperto il confine tra l’Irlanda del Nord (componente del Regno Unito) e la Repubblica d’Irlanda: «A volte gli accordi si trovano all’ultimo momento». L’aria è di rottura. La Ue, almeno finora, ha respinto la richiesta di Johnson di rinegoziare l’accordo.
Così il treno della Brexit senza accordo corre a tutta velocità verso la rottura con Bruxelles: il 31 ottobre il Regno Unito sembra destinato a lasciare l’Europa, spezzando l’unità del vecchio continente. Johnson ha mostrato di non temere la rottura: «Se non possono scendere a un compromesso, allora dobbiamo chiaramente prepararci per un’uscita senza accordo».
Il leader dei Tories e primo ministro di Sua maestà cavalca la Brexit (come ha sempre fatto) anche per combattere e sottrarre consensi a Nigel Farage, l’astro populista britannico (ha trionfato nelle elezioni europee con il 32% dei voti).
Per il futuro sembra pensare a un rapporto sempre più stretto con gli Stati Uniti e con i paesi dell’ex Impero britannico, le nazioni del Commonwealth. Il populista Johnson è sulla stessa lunghezza d’onda del populista Trump. Il presidente americano ha sempre fatto un tifo sfegatato per la Brexit e ha offerto a Londra fuori dalla Ue «un meraviglioso accordo commerciale».