È il 20 novembre di trent’anni fa: quel giorno un Leonardo Sciascia stanco, logorato da una malattia che non ha rimedio, finisce di soffrire. Un soffio; un chinar la testa di lato. La lunga agonia finisce.
Uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento non è più: restano ‘solo’ i suoi libri, quello che ha scritto. Come ricordarlo, a trent’anni dalla morte, senza scadere nel cliché, senza precipitare nella retorica, nel banale e scontato? La cosa migliore forse è rileggere alcune sue pagine, sulla sua ‘ossessione’: la giustizia, e come viene amministrata.
Premessa necessaria: si parla di ‘errore giudiziario’. Nella prefazione che gli chiesi anni fa per un libretto scritto con Raffaele Genah, «Storie di ordinaria ingiustizia, Sciascia raccomanda di tener sempre bene a mente il monito di Manzoni: quasi sempre si tratta di ‘errori’ ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: «trasgredir le regole ammesse anche da loro…se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa…».
Per darsi spiegazione di come l’amministrazione della giustizia in Italia sia quella che è, Sciascia azzarda che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Per questo è tra i primi a sottoscrivere la richiesta di referendum sulla responsabilità civile del magistrato promosso da Marco Pannella, e da deputato radicale fa della giustizia la sua “ossessione”.
A questo punto conviene sfogliare un romanzo, Il contesto, che a suo tempo, anche a sinistra, solleva non poche polemiche. L’ispettore Rogas è a colloquio con un alto magistrato, il presidente Riches. Quest’ultimo espone la sua idea di giustizia: «Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anch’essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi…».
L’errore giudiziario non esiste, conclude il magistrato; e dopo aver individuato in Voltaire, e il suo Traité sur la tolérance a l’occasion de la mort de Jean Calas, il punto di partenza da cui si è cominciato a erodere, a mettere in discussione la sacralità del giudice-sacerdote, conclude: «La sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo. Perseguire il colpevole, i colpevoli, è impossibile, praticamente impossibile, tecnicamente. Non è più il cercare l’ago nel pagliaio, ma il cercare nel pagliaio il filo di paglia…».
Ancora una citazione, da Una storia semplice; che tutto è, meno che semplice. Si vada alla pagina in cui il vecchio professore viene interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente.
«Posso permettermi di farle una domanda?…Poi gliene farò altre, di altra natura…», comincia con fare ammiccante il magistrato. «Nei componimenti d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».
«Perché aveva copiato da un autore più intelligente”, risponde il professore.
Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…».
Di fulminante perfidia il professore: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare», disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto».
Ecco, può bastare, per comprendere, capire l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come viene amministrata. Il problema ieri, ma oggi, e sempre, non è quella “visione”, che si può condividere o avversare. Piuttosto perché Sciascia la coltivasse, come sia potuto giungere alla conclusione cui era arrivato; e senza generalizzare come lui non generalizzava, se analoga “visione” sia coltivata da larga parte della pubblica opinione, e perché. Ed è questione, interrogativo, che sarebbe cosa buona e giusta ci si ponesse tutti. I magistrati per primi.