Poteva essere la buona occasione per una riflessione a tutto campo, e – perfino – trarne qualche utile conclusione. No, invece. In occasione del ventennale della morte di Bettino Craxi, si è molto parlato del film che Gianni Amelio gli ha dedicato; dell’interpretazione del bravissimo Pierfrancesco Favino (la qualità generale del film è opinabile; lo si dice dal punto di vista “tecnico”: di uno che è stato ben educato a forza di Rossellini-De Sica-Germi-Monicelli, per limitarsi a quattro dei tanti che si possono citare).
Una quantità di rievocazioni, celebrazioni, pubblicazioni; e, inevitabili, polemiche: “latitante”, “esule”, e quant’altro.
«Where’s the beef? », si chiederebbero gli americani. Già, perché pur con il tanto detto e scritto, la “carne” non si vede.
Il “beef” è nell’ultimo discorso di Craxi in Parlamento: quello dove pone la questione del finanziamento ai partiti e alla politica. Un po’ tutti, banalmente ricordano il passaggio dove il leader socialista “invita” ad alzarsi in piedi chi non ha utilizzato fondi illegali; quasi tutti restano seduti, impassibili. Una reazione viene solo dal radicale Marco Pannella e dai parlamentari verdi.
Gli altri zitti, immobili, statue di cera, di gesso, fate voi. Comunque terrei, confusi. Avranno compreso quello che è accaduto, che accade, che si annuncia? Magari no. È possibile, probabile. Solo così si può spiegare quel cupio dissolvi a cui quasi nessuno sa e vuole sottrarsi.
Chi ha ben capito è Francesco Cossiga: lui la trama ce l’ha ben chiara in testa; sa forse più di quello che appare e si dice. Ha i suoi collegamenti, i suoi informatori; farà il “matto”, dopo, e non è invece matto per nulla. Ma questo è un altro discorso, da fare in altra occasione. Magari compulsando il bel diario del suo capo ufficio stampa Lodovico Ortona, negli anni della residenza al Quirinale…
Conviene a questo punto rileggere bene il passaggio del discorso di Craxi:
«…Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale… A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio…».
La parte “suggestiva” del discorso è in quel “così fan tutti”, “tutti sanno e fanno”. Suggestiva, ma anche banale, scontata. In definitiva, inutile. Oggi, a quasi trent’anni da quel discorso, è un altro il passaggio che dovrebbe interessare, che merita una riflessione, un dibattito, un confronto:
«A questa situazione», sillaba Craxi, «va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio…». E ancora: «È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento ai partiti e che faccia tesoro dell’esperienza estremamente negativa di quella che l’ha preceduta».
Si potrà dire che Craxi individua e pone la questione quando ormai la situazione per lui e per il Partito Socialista è insostenibile, fuori tempo massimo; si potrà obiettare che quella è la mossa disperata di chi si sente braccato e senza via d’uscita; si possono fare tutti i processi alle intenzioni che si vuole.
Non è questo che ora importa. Quello che conta è che il 3 luglio 1992 Craxi pone la questione. Una questione che continua a restare aperta; siamo ancora in attesa che si ponga «un rimedio, anzi, più di un rimedio». Intanto, quel “sistema”, nell’essenza, è rimasto quello di sempre, anzi, forse si è ulteriormente incancrenito: cambiano gli attori, non il copione.
Neppure più si fa la “mossa” di elaborare, sia pure a livello teorico, una qualche alternativa al “sistema”; i partiti sono diventati organizzazioni liquide; la macchina del consenso si avvale ora di altri strumenti, con altre modalità si veicolano i propri “messaggi”, e si contrastano quelli degli avversari; ma anche “oggi” la politica costa, probabilmente più di “ieri”; e più ancora costerà “domani”.
Eppure ci si continua a comportare come se il problema non esista. Nelle televisioni e sui giornali si parla di tutto e di più, ma questa non marginale questione continua a essere ignorata. Quasi nessuno, come quell’ormai 3 luglio 1992 si alza in piedi. Una ragione evidentemente, c’è. Ma sarà anche per questo motivo che una quota di 50-60 per cento di elettorato rinuncia al suo diritto, e non fa più alcuna distinzione, ritiene tutti i competitor uguali, e ugualmente da punire?