Nazionalizzazioni nell’antico gergo socialista, Partecipazioni statali nella vecchia denominazione democristiana. Nessuno ne parla, ma l’idea comincia a serpeggiare. Sprofonda l’occupazione, la produzione industriale, il reddito nazionale. Il Coronavirus ha devastato con le spaventose ricadute economiche la già malandata struttura produttiva italiana.
Giuseppe Conte ha cercato di correre ai ripari con tre decreti legge: Liquidità, Cura Italia e Crescita. Il presidente del Consiglio ha stanziato oltre 80 miliardi di euro, in gran parte in deficit, per aiutare milioni di cittadini disoccupati o col lavoro dimezzato: sussidi, indennità di disoccupazione, Reddito di emergenza, cassa integrazione normale, straordinaria e in deroga. L’assistenza è importante per tamponare l’emergenza sociale, ma senza investimenti è impossibile garantire il futuro: la ripresa dell’occupazione e dell’economia.
Per cento motivi diversi (soffocante burocrazia, imprese a corto di liquidità, clima generale di sfiducia) quasi nessuno investe più. L’autunno fa paura, l’Italia rischierà il crac quando si esaurirà la fontanella dei sussidi pubblici a pioggia.
Eppure i capitali per investire ci sono: i risparmiatori tengono bloccati nei conti correnti bancari circa 1.400 miliardi di euro, molti imprenditori fanno lo stesso, il Tesoro piazza centinaia di miliardi di euro in Btp e Bot sui mercati (una buona parte fortunatamente acquistati dalla Banca centrale europea) ma gli investimenti per creare sviluppo e lavoro sono ben pochi.
Conte ha annunciato un grande confronto con le opposizioni, i sindacati e le imprese su un «Progetto di Rinascita dell’Italia». Il nome è ambizioso e impegnativo. Si vedrà di cosa si tratta negli Stati Generali programmati a Villa Pamphili a Roma, ma gli stessi alleati del governo giallo-rosso (Pd, M5S, Italia Viva, Leu) non sembrano crederci molto. Gli scontri interni sono continui. Nicola Zingaretti, in particolare, ha chiesto a Conte una svolta, «un salto di qualità». Il segretario del Pd chiede di «cambiare tutto e costruire un nuovo modello di sviluppo».
Le misure finora definite per la ripresa non sono certo entusiasmanti. Gli incentivi ambientali per l’acquisto delle biciclette o quelli fiscali per la riqualificazione ecologica degli immobili sono provvedimenti importanti, ma non hanno né la potenza politica né quella quantitativa per la «Rinascita dell’Italia».
Negli anni ‘Cinquanta prima le Partecipazioni statali volute da Amintore Fanfani, poi negli anni ‘Sessanta le nazionalizzazioni imposte da Pietro Nenni (come quella dell’energia elettrica) diedero una identità alla strategia riformista della Dc e del Psi. I grandi investimenti pubblici furono determinanti, fecero da traino allo straordinario sviluppo dell’industria e dell’economia italiana. L’Iri era presente in settori centrali: autostrade, grandi opere, telefonia, siderurgia, cantieristica, auto, assicurazioni, banche, trasporto aereo e marittimo. L’Eni presidiava la petrolchimica. La riforma agraria e i piani di edilizia pubblica diedero una risposta alle fondamentali esigenze di vita. «Case, scuole, ospedali» era il motto di Nenni e di Saragat. Con i fondi pubblici si costruirono «case, scuole, ospedali». Poi arrivarono altre fondamentali riforme: il divorzio, l’aborto, la scuola media unica, l’università di massa, lo Statuto dei lavoratori, le pensioni sociali. Sviluppo, benessere, un forte stato sociale garantirono libertà e diritti nell’uguaglianza.
Conte ha messo un piede nelle nazionalizzazioni: l’Alitalia, la ex Ilva di Taranto. Ma, come nel caso del precedente salvataggio del Monte dei Paschi di Siena (e successivamente di altre banche di minor rilievo) sono decisioni subite più che volute: decise per evitare la bancarotta di importanti imprese italiane.
Servirebbe invece una strategia per una economia ecosostenibile imperniata sulle nazionalizzazioni-Partecipazioni statali. Una strategia finalizzata a un nuovo modello di sviluppo basato sulle tecnologie digitali, sulle grandi infrastrutture viarie e di riassetto idro-geologico del territorio, sul binomio scuola-sanità. Se il capitale pubblico dà il là i risparmiatori italiani sicuramente sarebbero invogliati ad investire. Del resto sia la Bce di Christine Lagarde sia la commissione europea di Ursula von der Leyen hanno messo economia verde e innovazione al centro dei piani d’investimento per la ricostruzione della Ue post Covid-19.