Il 14 agosto 2018, proprio alla vigilia di Ferragosto, Luciano Benetton ha perduto per sempre l’opportunità di passare un giorno alla storia del capitalismo italiano come il capo di una famiglia di imprenditori creativi, moderni e globali. A partire da quel giorno, l’immagine di Luciano Benetton e della sua famiglia è ormai indissolubilmente legata al “crollo del Ponte”, gestito dalla società Autostrade controllata dai Benetton, e alle 43 vittime che il Morandi si è portato dietro.
L’imprenditore pop dai lunghi capelli ricci sempre arruffati, che aveva costruito un impero partendo da un maglione giallo e dalle magliette colorate pubblicizzate in tutto il mondo dalle foto multietniche di Oliviero Toscani sembra sparito nel nulla. Finito sotto le macerie del Ponte, insieme a tutto l’impero di famiglia. Marchio globale che alla fine degli anni ’90, costretto a competere con produttori di abbigliamento a basso costo come Zara, ha deciso di diversificare. Alla ricerca di fonti di reddito più sicure, Gilberto Benetton, mente finanziaria della famiglia, decise di scommettere sulle strade a pedaggio. Alla fine degli anni Novanta, lo Stato Italiano privatizzava la rete autostradale costruita e gestita dall’Iri, e i Benetton fecero la loro offerta. Si ritrovarono così con una concessione di quasi tremila chilometri che presto si rivelato un monopolio naturale ad alto rendimento.
Superata qualche sporadica polemica sulle condizioni contrattuali, “troppo favorevoli” al concessionario privato, la famiglia, attraverso Atlantia, allargò il business agli Auto e cominciò a guardare oltreconfine. Sempre godendo di un’immagine positiva. Fino al crollo del Morandi.
Da quel momento in poi le cose sono andate di male in peggio. Un disastro. A partire dall’incredibile silenzio con cui i Benetton hanno accolto la tragedia del crollo. Silenzio rotto solo dopo due giorni con una fredda dichiarazione in cui si esprimeva «profondo dolore per le vittime». E basta. Intanto, mentre crescevano le polemiche sulla manutenzione del Morandi, montava il fronte, guidato da Cinquestelle, che chiedeva la revoca dell’intera concessione autostradale. Finché le indagini avviate dalla magistratura scoprirono una serie di telefonate e messaggi tra i tecnici del gruppo per “addolcire” i rapporti sulle strutture che avrebbero avuto bisogno di manutenzioni urgenti e costose.
A questo punto, Luciano Benetton scarica i suoi manager. Liquida l’amministratore delegato con una buonuscita di 13 milioni di euro e scrive una lettera ai giornali per prendere le distanze. Definisce i Benetton “parte lesa”, perché «nessun componente della famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade». Poi precisa: «Non cerco giustificazioni, da quanto sembra l’organizzazione di Autostrade si è dimostrata non all’altezza, non è stato mantenuto il controllo necessario su tutti i settori di un sistema così complesso. Una struttura è fatta di uomini e qualche mela marcia può celarsi dappertutto».
Una caduta, inimmaginabile. E poi sempre più giù, fino all’offerta di questi giorni per evitare la revoca della concessione, con i Benetton pronti a scendere sotto il 50 per cento, ad abbassare i pedaggi, ad aumentare gli investimenti per le manutenzioni, a risarcire le famiglie delle vittime.