Finito sulla graticola per il Recovery Fund, Giuseppe Conte è un premier dimezzato. L’attacco di Renzi in Senato lo ha costretto a una verifica di governo, ma solo perché il suo modo di gestire il potere in solitaria non piaceva nemmeno a gran parte del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle.
Intanto su Palazzo Chigi si allunga l’ombra di Mario Draghi. Schivo, riservato e silenzioso, l’ex numero uno della Bce, viene ormai invocato da molti, anche nell’opposizione. Secondo il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, «sarebbe quello che ci vuole, per fare cose che un governo raccogliticcio come l’attuale, tutto e solo preso dal consenso, non potrebbe mai fare».
Il problema è che ancora non è chiaro se Draghi sarebbe disponibile per Palazzo Chigi ed, eventualmente, a quali condizioni. L’anno scorso, a un giornalista che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto dopo l’uscita dalla Banca Centrale Europea, rispose con il famoso: «Domandatelo a mia moglie». Da allora ad oggi i suoi interventi pubblici sono stati pochissimi e tutti proiettati in uno scenario internazionale. Anche l’ultimo, quello del 15 dicembre sul Recovery Fund, non conteneva riferimenti diretti all’Italia.
Ma dire che i soldi in arrivo dall’Ue non si possono «buttare via», e aggiungere che «dovranno essere impegnati in progetti ad alto rendimento» perché la sostenibilità del debito pubblico «sarà giudicata da come verranno impiegati i fondi», può anche essere visto come il messaggio di chi fissa i paletti con cui garantire la stabilità dell’Italia.
Comunque sia, è evidente che Draghi non intende continuare a fare il Cincinnato. Ha lasciato la sua casa in campagna per tornare ad abitare nell’appartamento romano e lo si vede sempre più spesso a Palazzo Koch. Qui, nell’ufficio a cui “SuperMario” ha diritto come ex governatore Bankitalia, adesso sono attive quattro linee telefoniche. Troppe per un pensionato.