Leonardo Sciascia: conservo come una sorta di salvacondotto, una reliquia laica un suo biglietto, con la data maggio 1982, dove riprende un’esortazione di Seneca: «Bisogna cominciare a contarsi. Si scoprirà, allora, che siamo isolati ma non soli. Non numerosi, ma sufficienti per contrapporre, come diceva De Sanctis, l’“opinione” alle “opinioni correnti”».
Frasi che sono, per me, una sorta di contravveleno che rende più lieve sopportare i tempi che ci tocca vivere e patire. Tempi che immagino anche Sciascia avrebbe trovato insopportabili contrassegnati come sono da ostentata, compiaciuta, volgarità e sguaiataggine. Tempi che richiedono più mai una resistenza.
Ci ha lasciato una sorta di testamento: «Bisogna rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto fra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane, rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata».
Valeva nel 1979, quando queste parole sono state scritte. A maggior ragione oggi.
Di occasioni per “contarsi”, a Sciascia non ne sono mancate; penso alla polemica che lo ha opposto al PCI, all’affaire Moro, alla vicenda del rapimento del giudice Giovanni D’Urso; la polemica sul coraggio e la “vigliaccheria” degli intellettuali, la mafia, il professionismo anti-mafia, l’impegno a fianco di Enzo Tortora per una giustizia più giusta, umana e rispettosa…
L’oggi. In occasione del centenario della nascita tanti, troppi, parlano e scrivono di quanto Sciascia sia stato grande, e di quanto grande sia la sua opera, il suo “fare”, il suo “dire”.
Beninteso: è vero. Ma si sorride un po’ amari nel vedere che oggi, a piangerlo, in prima fila, spesso sono gli stessi che in vita (e qualcuno anche dopo che era morto), si sono prodigati in insulti volgari e meschini. Si dirà che non è cosa nuova. Anche questo è vero. È accaduto anche ad altri, penso a Marco Pannella e a Enzo Tortora. Ho avuto il grande onore e la grande fortuna di conoscerli e frequentarli. Non credo sia un caso se Sciascia, Pannella e Tortora tante volte si sono trovati insieme, in feconda e attiva unione, si sono schierati e battuti per cause che hanno un denominatore comune: il diritto al diritto; il diritto alla conoscenza.
Sciascia ha dovuto sopportare una quantità di detrattori, di cui poco ci si ricorda. Per certi versi, anche per me che ho il culto della memoria. È un bene che il loro nome sia dimenticato. Però, se non dei loro autori, di qualche insulto occorre pur serbare il ricordo. Pensate: qualche anno fa sul Corriere della Sera, un filosofo di non so quale filosofia, se ne è uscito dicendo che «Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più».
A Sciascia si deve una definizione della mafia che credo sia la più calzante, sinteticamente esatta, perfetta: «La mafia è un’associazione per delinquere, con fini di arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, ed imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato».
Occorre fare attenzione alle date: queste cose Sciascia le diceva e scriveva nei primi anni Sessanta, quando ancora l’allora cardinale di Palermo negava che esistesse la mafia, e si accusava chi ne parlava di denigrare la Sicilia e i siciliani.
“Il giorno della civetta” è uno dei romanzi più conosciuti di Sciascia; e più di tutto, credo, la famosa pagina dove il capomafia Mariano Arena elenca le categorie in cui suddivide l’umanità: «Uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi».
Pagina ad effetto; ma quella importante, su cui meditare veramente, che sarebbe bene fosse scolpita anche nei manuali – se ve ne sono – di addestramento per poliziotti, carabinieri, magistrati è un’altra. È quella in cui il capitano Bellodi, è preso da scoramento: teme che il capo-mafia del paese, possa farla franca, come poi in effetti accadrà, grazie alle protezioni e alle complicità politiche di cui gode. Per questo Bellodi, uomo del nord, originario di Parma, antifascista e che ha fatto la Resistenza, vacilla: cede per un attimo alla tentazione di tradire gli ideali in cui crede e ha combattuto, e pensa che si debbano e possano usare quei metodi al di là e al di sopra della legge che furono la caratteristica del prefetto Cesare Mori durante la dittatura fascista. “Il fine giustifica i mezzi”, per usare un machiavellismo di bassa lega. Per inciso: a Mori quei mezzi, per quel fine, furono consentiti solo fino a quando colpì i rami “bassi” della mafia, i briganti. Quando cercò di arrivare ai rami “alti”, ai capi, già collusi e protetti dal regime, prontamente Mori fu fatto senatore, promosso e rimosso.
Il capitano Bellodi vince subito quella tentazione/illusione in cui era precipitato; e svolge un ragionamento che è un po’ il nocciolo della questione:
«Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…».
Una strategia investigativa, quella degli accertamenti bancari e del controllo dei patrimoni, che nessuno aveva mai tentato, e che nessuno tenterà mai seriamente prima di Giovanni Falcone, che lo farà vent’anni dopo. Magari questo suggerimento fosse stato accolto e messo in pratica quando venne dato, nel 1962; forse molte di quelle cronache che è accaduto di leggere sui giornali o vedere nelle televisioni, ce le saremmo risparmiate.
È stato Sciascia ad aprirci gli occhi sulla mafia, con pochi altri: mi viene in mente Danilo Dolci, il sociologo triestino che si trasferì in Sicilia, e ci ha regalato Banditi a Partinico e Inchiesta a Palermo. Penso a uno scrittore che negli ultimi anni della sua vita ha vissuto appartato, isolato, ed è morto dimenticato: Michele Pantaleone, cui dobbiamo Mafia e politica, Mafia e droga, Antimafia, occasione mancata. E Sciascia appunto.
Giovanni Falcone, intervistato da Mario Pirani per La Repubblica nell’ottobre del 1991 dice di aver sempre considerato Sciascia un grande siciliano profondamente onesto. In altre occasioni sostiene di essersi formato attraverso i suoi libri.
Sciascia e l’amministrazione della giustizia. Anni fa ha scritto: «Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza; senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del “cuore umano”, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica. Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come un potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe aver radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio. Sappiamo, purtroppo, che non da questo sentimento e intendimento i più sono chiamati, vorremmo dire vocati, a scegliere la professione del giudicare. Tanti altri sono gli incentivi, e specialmente in un paese come il nostro. Ma il più pericoloso di tutti è il vagheggiare – e poi il praticare – il grande potere che la nostra società ha conferito al giudice come potere fine a se stesso o come potere finalizzato ad altro che non sia, caso per caso, quello della giustizia secondo legge, secondo lo spirito e la lettera della legge spirito – si vorrebbe – mai disgiunto dalla lettera. E l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto».
Un ministro dell’Istruzione davvero dell’Istruzione ministro, avrebbe invitato tutte le scuole a dedicare qualche ora di lezione per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Leggerle a voce alta, e commentarle, discuterle, criticarle, magari. Per Sciascia un efficace impegno anti-mafia, era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino. Non sorprende che né il ministro né qualcuno dei suoi consiglieri abbia avuto questo riflesso. Il contrario, sì, quello avrebbe sorpreso.