La dinastia giulio-claudia è il filo rosso che lega questo libro agli altri tre già pubblicati da Paolo Biondi, “Livia, una biografia ritrovata” (2015), “I Misteri dell’Ara Pacis” (2017), “Giulia. Passione, poesia, potere” (2019): il primo dedicato alla moglie di Augusto, il secondo al monumento celebrativo delle vittorie del princeps in Spagna e in Gallia e consacrata nel giorno del compleanno di Livia, il terzo alla figlia avuta dalla seconda moglie Scribonia. Tre romanzi i cui protagonisti, esponenti di spicco dell’età augustea che si stava allora inaugurando, emergono a tutto tondo sul fondale della storia, indagata ed accertata nelle sue fonti, grazie ad una scrittura capace di estrarre ombre e misteri dalle vicende narrate.
Lo spazio temporale in cui si colloca l’ultimo romanzo di Paolo Biondi, Il Testimone (Edizioni di Pagina, Bari 2021) è plurimillenario quanto la vita dell’obelisco che ancora oggi campeggia nella piazza della Basilica di San Pietro, con la sua altezza di circa 40 metri, se si considera anche il basamento. La racconta al lettore in prima persona lo stesso monolite nel prologo del romanzo, partendo dalla sua costruzione nella città egiziana di Heliopolis per volere del faraone Nencoreo (oggi identificato con Amenemhet II, 1985-1929 a.C), il quale lo dedicò al dio Sole che gli aveva ridato la vista. Dopo circa due millenni, durante il principato di Augusto esso fu trasferito nel Forum Iulii di Alessandria d’Egitto da Cornelio Gallo, poeta d’amore che aveva celebrato nei suoi versi la bella Licoride, amico di Virgilio e dello stesso Augusto che lo aveva nominato primo prefetto d’Alessandria e d’Egitto. Per la vanitosa ed eccessiva ostentazione delle proprie imprese militari Gallo cadde in disgrazia presso il princeps e, processato e condannato dal Senato, finì col suicidarsi. Qui si arresta il racconto dell’obelisco e si chiude il prologo, quanto è bastato per comunicare al lettore che il suo ruolo è quello di semplice testimone, di testimone muto che non ha un messaggio da trasmettere ma solo una storia da raccontare con distacco di cronista.
Ed è a questo punto che Paolo Biondi dà inizio alla storia che è il vero fulcro del romanzo, il cui protagonista è un abile stalliere, il giovane ebreo Daniele, fuggito in Egitto dalla Giudea. Sarà lui d’ora in poi il personaggio principale del racconto preannunciato dal Testimone, ma non l’unico. La narrazione, infatti, si snoda lungo due direttrici che hanno inevitabili intersezioni: il Testimone sarà pure muto, ma impossibile non avvertirne la presenza visto che il séguito della sua vita sarà agito da Daniele. Sarà questi, infatti, a garantire, con la rigorosa e silenziosa osservanza degli ordini impartiti da Caligola, la riuscita dell’immane impresa di trasportare l’enorme obelisco da Alessandria a Roma su una nave altrettanto immensa, edificata con smisurata maestria, quale la descrivono con incredula ammirazione gli storici (per tutti Plinio e Svetonio).
Una volta giunto a Roma, quel blocco di granito rosso sarebbe stato innalzato nella spina del circo di Caligola, poi divenuto circo di Nerone, sul lato sinistro dell’antica basilica costantiniana, e da quell’altezza avrebbe assistito da osservatore muto ad innumerevoli corse di cavalli, compresa la folle corsa dell’imperatore in sella al suo venerato Incitatus, segno premonitore del vicino tracollo del princeps. Lungo un’altra direttrice si svolge la vita di Daniele fino all’incontro con il senatore Marco Terenzio, emissario di Caligola, che gli affida l’ingrato compito di seguire il trasferimento a Roma dell’obelisco. Il dolore per il distacco da Alessandria e dalla sua famiglia è lenito dall’idea di quel circo, dove avrebbero corso i più bei cavalli del mondo. Una volta a Roma per Daniele ha inizio una nuova vita. Stalliere dell’imperatore e frequentatore di una affiatata comunità ebraica, in breve tempo impara a muoversi con destrezza nell’intreccio di strade, vicoli e incroci della Roma antica, descritti dall’Autore con la precisione topografica di chi nella vita reale quei percorsi li compie quasi quotidianamente, fissandoli in immagini fotografiche degne di una esposizione. Attraverso lo sguardo e gli spostamenti di Daniele alla dimensione temporale del racconto si aggiunge quella spaziale, fatta di particolari architettonici, di monumenti, di mosaici, di edifici pubblici, di domus urbane e suburbane e dei loro interni, di case e botteghe, di una Roma perduta insomma, che Paolo Biondi restituisce ai suoi lettori con il grado di attendibilità e l’appropriatezza che solo la lettura delle fonti storiche può concedere.
Sullo sfondo di una Roma imperiale segnata da congiure di palazzo, condanne e uccisioni prosegue la storia dell’ebreo Daniele: l’arrivo di Pietro a Roma e la sua opera di evangelizzazione, la cacciata di tutti gli ebrei dalla città per ordine di Claudio, successore di Caligola, la partenza precipitosa del giovane, l’approdo a Messina, il matrimonio con Lucia e di nuovo il ritorno a Roma, il devastante incendio della città, sul cui mandante dissentono gli stessi storici romani, dichiarandolo, Tacito, di origine incerta, attribuendolo, Svetonio, alla volontà del nuovo imperatore Nerone. E fu proprio Nerone ad accusare dell’incendio i cristiani e Pietro, che finì crocifisso e fu pietosamente sepolto da Daniele e altri fedeli in una grotta che guardava in direzione dell’obelisco. L’area circense, ormai in disuso, diventò col tempo una necropoli, ma quel monolite di granito rosso rimase lì ad osservare il fluire della vita, le lunghe processioni di fedeli in visita al sepolcro di Pietro, l’avvicendarsi degli imperatori, la costruzione dell’antica grande basilica costantiniana di San Pietro in Vaticano nell’area in seguito occupata dalla nuova Basilica Vaticana, e il susseguirsi dei papi, fino al 1586, anno in cui papa Sisto V lo fece trasferire nella piazza di San Pietro con una operazione assai rischiosa, ma certo non paragonabile al mitico suo trasporto attraverso il Mediterraneo.
Gli accadimenti dall’età post-neroniana ad oggi sono narrati dall’obelisco, che si riaffaccia in prima persona nell’epilogo del romanzo in studiata Ringkomposition con il prologo. La scrittura di Paolo Biondi, ora vivida, ora pensosa, ora solenne, ora ironica attinge ai diversi registri dettati dalla descrizione delle prerogative esistenziali del giovane ebreo e dalla varietà delle situazioni narrate. Le parole del monolite, che nel prologo ammette imperturbabile il suo ruolo di muto testimone dei fatti, nell’epilogo appaiono segnate dalla drammaticità del martirio di Pietro: «Quella morte mi aveva dato la vita. Da quel giorno non sono più il semplice testimone degli avvenimenti che accadono intorno a me, ma uno dei protagonisti della storia che ha preso il via da quel sepolcro». L’Apostolo martire con il suo sacrificio ha fatto sì che il Testimone andasse oltre la sua materialità di granito rosso, diventando Testimone empatico di quella morte. La compenetrazione tra i due attori di questo processo, il Martire e il Testimone, trova un riscontro interessante nelle loro denominazioni: le parole “martire” e “testimone”, infatti, pur se etimologicamente distanti, sono semanticamente affini; la prima, dal greco mártys (poi in latino martyr), indica “colui che testimonia (la propria fede)”; il secondo, sinonimo di “teste”, dal latino testis, è “colui che può dare testimonianza di un evento cui ha assistito”.
Ultimata la lettura del libro e preso atto delle nuove ‘buone intenzioni’ dell’Obelisco, sorge spontaneo il desiderio di ritornare su quella piazza e di interrogare il Testimone, il quale magari risponderà, ma in un muto dialogo con l’interlocutore.