Silvia Tortora,
come il padre Enzo,
vittima d’ingiustizia 

Lunedì 10 gennaio 2022 è un giorno triste. Lunedì, una cara amica, Silvia Tortora, figlia di Enzo, è “volata” altrove (sempre che ci sia, un “altrove”); comunque ci ha lasciato. Come il padre, e come sua sorella Gaia, come la compagna di Enzo, Francesca Scopelliti, ha vissuto in prima persona un’abominevole vicenda che si è abbattuta sulla famiglia come uno tsunami.

Silvia Tortora, Silvia Tortora

Silvia Tortora

Adesso lo dicono tutti: Enzo Tortora era una persona per bene. Qualche anno fa lo ha detto perfino quel pubblico ministero che in aula, a Napoli, tuonava: «Cinico mercante di morte», e a noi increduli diceva severo: «Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più trovavamo quelle della sua colpevolezza?».

Nelle ore successive a quel 17 giugno 1980, giorno dell’arresto di Enzo, eravamo davvero in pochi a credere infondate e assurde quelle infamanti accuse di affiliazione alla camorra e spaccio di droga. Un pugno di giornalisti, sia pure di prestigio e autorevoli: Enzo Biagi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Giacomo Ascheri, Piero Angela, Massimo Fini…; tra i politici il solo Marco Pannella… Ho vivida memoria di come Vittorio Feltri ha raccontato, per La Domenica del Corriere i cronisti a banchetto, che senza darsi pena di seguire il processo, scommettevano sulla condanna: felici e giocosi, e concordavano le versioni da pubblicare, in osceno baccanale…

La famosa «bomba che mi hanno fatto esplodere dentro» di cui parlava Enzo, non solo ha ucciso lui; è deflagrata e ferito irreparabilmente anche le due amatissime figlie, Silvia e Gaia.

Silvia Tortora, Enzo Tortora

Enzo Tortora

Quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia tutti citano Enzo. Non c’è dubbio che quell’arresto costituisce per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose; e nessuno ha pagato per quelle infamie. È incredibile che si sia potuto dar credito a personaggi come Giovanni Pandico (camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Raffaele Cutolo: ascoltato diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è camorrista), o a Pasquale Barra ‘o nimale (in carcere uccide il gangster Francis Turatello, e ne addenta l’intestino). Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti pentiti: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Tutto falso: lo si poteva accertare subito. Non lo si è fatto.

Silvia Tortora, Silvia Tortora a un dibattito

Silvia Tortora ad un dibattito

Il resto è storia nota: candidatura nelle liste radicali per il Parlamento Europeo, elezione; dimissioni per non sottrarsi alla richiesta avanzata dalla magistratura di arresto; impegno totale per la giustizia giusta. Il tumore che lo stronca.

Una vicenda abnorme; Silvia la vive con grande dignità; quella dignità – buon sangue non mente! – figlia di suo padre. Tutte le volte che mi è accaduto di intervistarla, di ascoltarla, una profonda, “composta” amarezza: «Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito. Anzi in tutti questi anni c’è stata una esplosione numerica».

Una volta, per un’intervista televisiva, preventivamente ho pregato Silvia di rispondere nel modo più “secco” possibile, non volevo “tagliare” le risposte, e non c’era molto tempo a disposizione. Chiesi come erano state condotte le indagini, se ci si era dati pena di disporre perquisizioni, accertamenti bancari, pedinamenti, le cose minime che si fanno quando qualcuno è sotto inchiesta; se, infine, qualcuno, tra i magistrati o i giornalisti, aveva chiesto scusa. Un lungo rosario di monosillabi: «No», «No», «No»…e infine: «Nessuno».

Sono trascorsi più di trent’anni da quell’intervista, e ancora quando la riascolto, mi vengono i brividi.

Ancora oggi mi accade di incontrare persone incredule: «Perché?», chiedono. Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.

Un processo alle Brigate Rosse

Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Per lui si fa quello che non si volle fare per Aldo Moro. 

Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90 mila miliardi di lire. Avessero dato un miliardo a ogni terremotato, sarebbero rimasti dei soldi. La ricostruzione è stata fatta solo in parte, e male; e il denaro è evaporato in mille rivoli. 

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Arriviamo ora al “perché?”, al “contesto”.

Interno di un carcere

A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati «pentiti a orologeria»; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. 

È così che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… Documenti ufficiali, non congetture. 

Resta da dire che i magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto, chi più chi meno, carriera; nessuno è stato chiamato a rispondere di questa vera e propria barbarie, né i magistrati, tantomeno i falsi “pentiti” che hanno infangato Tortora; neppure un buffetto ai carabinieri che nelle ore dell’arresto prima di condurre Enzo in carcere, lo hanno costretto a percorrere un “corridoio” di decine di metri, tra due ali costituite da decine di giornalisti, fotografi e tele-cineoperatori, appositamente convocati e preallertati, in modo da poter esibire il “trofeo” e poi gloriarsene.

Silvia Tortora, Enzo Tortora

Enzo Tortora

Tortora da quella vicenda non si è mai completamente ripreso. Stroncato da un tumore ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla sua tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: «Che non sia un’illusione». 

«Ormai divido la gente in due categorie molto semplici», diceva Enzo: «quelli che conoscono sulla pelle l’infamia di una carcerazione in un regime cosiddetto democratico, protratta all’infinito, protratta per anni; e quelli che non hanno la jattura di conoscerla». Trent’anni dopo, Silvia: «Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito. Anzi in tutti questi anni c’è stata una esplosione numerica».

Parole amarissime; chi scrive, può solo aggiungere una consapevolezza maturata da anni: quella di vivere in un Paese dove la magistratura gli procura un sentimento di irrefrenabile paura.