Piace credere che nello scegliere una frase di Voltaire come epigrafe per la sua relazione per l’anno Giudiziario 2022 il primo presidente della Suprema corte Pietro Curzio abbia inteso lanciare un preciso messaggio, e innanzitutto ai suoi colleghi. La frase di Voltaire, ricavata dal suo celebre “Traité sur la tolérance”, è questa: «L’onore dei giudici consiste, come quello degli altri uomini, nel riparare i propri errori».
Siamo agli antipodi della “fantasia” raccontata nel 1971 da
Leonardo Sciascia ne “Il contesto”, il famoso monologo del presidente Riches davanti a uno sbigottito ispettore Rogas: «Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anch’essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi…». L’errore giudiziario non esiste, conclude il magistrato; e dopo aver individuato in Voltaire, e il suo “Traité sur la tolérance a l’occasion de la mort de Jean Calas”, il punto di partenza da cui si è cominciato a erodere, a mettere in discussione la sacralità del giudice-sacerdote, conclude: «La sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato.
Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo. Perseguire il colpevole, i colpevoli, è impossibile, praticamente impossibile, tecnicamente. Non è più il cercare l’ago nel pagliaio, ma il cercare nel pagliaio il filo di paglia…».
Il fatto è che sono ancora tanti (e più di quanto si crede e si immagina) i presidenti Riches che amministrano la giustizia in Italia: convinti di celebrare il mistero della transustanziazione, o più prosaicamente: che ci siano colpevoli individuati, e chi la fa franca.
Nella sua corposa, dotta, analitica relazione il presidente Curzio dice tante cose (ma tanto anche il non detto). In generale secondo il presidente Curzio «l’analisi dell’amministrazione della giustizia in Italia mostra, come del resto il Paese nel suo complesso, un quadro in chiaroscuro. I dati riportati nella parte analitica della relazione evidenziano criticità e segni di miglioramento. Nel settore civile nell’ultimo anno vi è stato un incremento delle definizioni dei processi rispetto all’anno precedente. Complessivamente la crescita è del 9,8%. Le nuove iscrizioni sono anch’esse cresciute, ma in modo meno intenso, pari all’1,9%. Il maggior numero di definizioni rispetto all’incremento delle nuove iscrizioni comporta che le pendenze sono diminuite del 6,5% in confronto all’anno precedente. Si è passati da 3.321.149 a 3.106.623 procedimenti pendenti.
È un dato sicuramente positivo soprattutto se si considera che dieci anni fa le cause civili pendenti superavano i 5 milioni. Ma i tempi di definizione dei processi rimangono troppo elevati. La situazione della giustizia penale è in parte analoga: la durata dei processi è generalmente in crescita anche se in misura non univoca tra i diversi uffici giudiziari. La pendenza complessiva è di 2.540.674 processi (con una variazione del 3,8% in meno rispetto all’anno precedente). Il rapporto tra nuove iscrizioni e definizioni è però inverso rispetto al civile, in quanto nel penale la riduzione delle pendenze deriva dalla riduzione delle nuove iscrizioni, mentre le definizioni sono, in linea di massima, stabili. La riduzione delle iscrizioni dei reati è un dato di non univoca valutazione: nel complesso indica un miglioramento della convivenza civile nel nostro paese…».
Interessante una notazione relativa ai magistrati: «Le ultime esperienze concorsuali mostrano una costante difficoltà nel coprire tutti i posti banditi, facendo sorgere il ragionevole dubbio che molti corsi universitari non riescano a fornire le basi per il superamento del concorso… Ancor più a monte, emerge un problema di qualità della scrittura. Il professor Luca Serianni ha spiegato perché nella formazione scolastica vanno difesi strenuamente il compito di italiano e in generale le prove scritte; mi permetto di sottolineare l’importanza del “riassunto”, per stimolare quella capacità di sintesi che il codice di procedura richiede prevedendo che le sentenze devono essere chiare e concise».
Ancora Sciascia: questa volta la citazione è da “Una storia semplice”, l’ultimo, amarissimo racconto; si vada alla pagina in cui il vecchio professore viene interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda? … Poi gliene farò altre, di altra natura…», comincia con fare ammiccante il magistrato. «Nei componimenti d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Di fulminante perfidia il professore: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare», disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto».
Ecco, può bastare. Forse il presidente Curzio non ha pensato a questo, nel redigere la sua Relazione; però a questo s’è pensato nell’ascoltarlo, nel leggerlo.
Interrogativi, riflessioni che sarebbe cosa buona e giusta ci si ponesse tutti. I magistrati per primi.