Azzardo pericoloso di Vladimir Putin sul Donbass, il territorio russofono dell’Ucraina. Lunedì 21 febbraio ha firmato un decreto con il quale riconosce come indipendenti la Repubblica Popolare di Donesk e la Repubblica Popolare di Lugansk (le due province, parte di rilievo del Donbass, proclamarono la loro indipendenza da Kiev nel 2014).
Il presidente russo ha usato parole dirompenti parlando in diretta televisiva alla popolazione: «La situazione in Donbass è diventata critica». E poi: «L’Ucraina non è un Paese confinante, è parte integrante della nostra storia e cultura». L’annuncio di Putin arriva dopo quattro mesi di altissima tensione, da metà febbraio sono riprese a fischiare le bombe nel Donbass. Nella notte i primi soldati russi sono entrati a Donetsk. Formalmente come forze di pace.
La reazione del presidente ucraino Zelensky è ferma. Ha Chiesto aiuto alle nazioni occidentali e ha annunciato la volontà di combattere: «Con il riconoscimento dei ribelli la Russia ha violato la sovranità dell’Ucraina. Ma noi non abbiamo paura di nessuno: non cederemo un solo pezzo del nostro Paese».
La mossa di Putin non è del tutto una sorpresa perché la Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, il 15 febbraio aveva già approvato una mozione non vincolante per il riconoscimento delle due Repubbliche secessioniste come Stati indipendenti. Probabilmente è il primo passo verso l’annessione alla Federazione Russa come avvenne nel 2014 per la Crimea, dopo un referendum.
Stati Uniti, Ue, nazioni europee si preparano a pesanti sanzioni contro il Cremlino. I paesi occidentali hanno visto frustrati tutti i loro tentativi per arrivare a una intesa tra Ucraina e Russia. Ma tutti gli sforzi politici e diplomatici sono falliti. Joe Biden, comunque, potrebbe incontrare Vladimir Putin nei prossimi giorni. Il presidente americano è stato pessimista fin dall’inizio della crisi. Da gennaio, sulla base di rapporti dei servizi segreti, ripeteva: il rischio di una invasione di Mosca è «molto elevato». Vladimir Putin alternava rassicurazioni a toni bellicosi: «La Russia non vuole la guerra», ma «qualsiasi vincolo forte sarà considerato una minaccia».
L’incubo di una disastrosa terza guerra mondiale in Europa è forte. Le conversazioni telefoniche tra il presidente statunitense e quello russo sono andate male. Gli incontri a Mosca tra alcuni primi ministri europei e Putin hanno prodotto scarsi risultati. Il colloquio tra Macron e Putin, in particolare, ha evidenziato distanze incolmabili. Le immagini dei due capi di Stato, seduti alle estremità opposte di un lunghissimo tavolo di 6 metri, anche visivamente hanno certificato i pericoli per la pace.
Solo l’incontro del 14 febbraio tra Scholz e Putin aveva raccolto qualche risultato. Il cancelliere tedesco aveva riacceso qualche speranza quando aveva rassicurato le principali preoccupazioni russe: l’ingresso di Kiev nella Nato «non è in agenda». L’ipotesi di disgelo faceva tirare al mondo un sospiro di sollievo, le Borse internazionali vivevano una giornata di rialzi dopo una sequela di pesanti tonfi. Tuttavia la situazione non si sbloccava, anzi la tensione si aggravava ulteriormente. Il personale delle ambasciate occidentali lasciava Kiev, la popolazione civile fuggiva dal Donbass.
Il principale scontro politico tra Biden e Putin è sulla Nato. Il presidente russo non vuole l’Alleanza atlantica alle porte di casa, in Ucraina, un paese già componente dell’Unione sovietica. Non vuole Kiev nella Nato per motivi di sicurezza. Il presidente americano invece non intende impegnarsi per un no all’ingresso nella Nato di uno Stato sovrano anche se per ora l’Ucraina non ha i parametri per aderire. Le posizioni sono invece più vicine sul resto delle richieste russe sulla sicurezza (in particolare sul bilanciamento delle armi nucleari in Europa).
La tensione è diventata esplosiva il 19 febbraio, quando Putin ha assistito con il presidente bielorusso Lukashenko a una massiccia azione di esercitazione militare di forze dell’esercito, aeree, navali e missilistiche strategiche. La poderosa prova muscolare di forza ha anticipato la “zampata” sul Donbass.
Adesso potrebbe accadere di tutto. Biden nei giorni scorsi temeva non solo un’annessione russa del Donbass ma perfino una penetrazione dei carri armati nel cuore dell’Ucraina: «I russi vogliono attaccare Kiev». Il presidente americano pensava anche a «un’operazione sotto falsa bandiera», cioè effettuata con milizie senza divisa russa, con truppe mercenarie modello brigata Wagner. Un po’ quello che avvenne con la conquista della Crimea nel 2014.
Eppure una soluzione politica della crisi esisterebbe: si chiama neutralità dell’Ucraina. La storia della “guerra fredda” ci offre anche un modello, quello della “finlandizzazione”. La Finlandia, una nazione dell’Europa settentrionale confinante con la Russia, un tempo parte dell’Impero zarista, all’epoca dell’Unione Sovietica era un paese indipendente anche se molto condizionato dagli interessi del potentissimo vicino.
Il vocabolario Zingarelli, nell’edizione del 1988, tre anni prima del crollo dell’Urss, dava questa definizione del termine “finlandizzazione”: «Condizione di neutralità condizionata di un Paese…» nella quale «è sottintesa la possibilità di una soggezione nei confronti di una grande potenza, in particolare dell’Unione Sovietica».
Ci sono, certo, altri tipi di neutralità. La Svizzera, ad esempio, da secoli è un modello esemplare di neutralità. La Confederazione Elvetica è un esempio di pacifica convivenza in uno stesso Stato di popolazioni di lingua tedesca, francese e italiana. Ma la piccola Svizzera confina con nazioni democratiche che rispettano la sua completa indipendenza e sovranità. Anzi, le banche elvetiche, sono così forti da mettere in soggezione quelle americane, tedesche, francesi, italiane. L’Ucraina invece deve fare i conti con il suo potentissimo vicino, forte delle armi atomiche, del petrolio e del gas esportati in tutto il mondo.