Non spesso, ma talvolta accade che la Giustizia mostri un volto umano e comprensivo in luogo di quello arcigno, tetragono alla Selah Lively: il giudice immortalato nella sua Spoon River da Edgar Lee Master: che si vendica delle sue frustrazioni a suon di durissime condanne.
Uno di questi giudici dal volto umano, capaci di coniugare giustizia a diritto, abita a Feltre. Grazie a questo giudice, Samantha D’Incà ha potuto mettere la parola fine a un penoso calvario che non le lasciava scampo; la sua famiglia ora può trovare se non pace, una briciola di consolazione: la sofferenza senza scopo e ragione della figliola è finita.
Samantha: una ragazza di 30 anni precipitata nel gorgo dello stato vegetativo, dopo un incidente avvenuto nel novembre 2020. Sabato scorso alla giovane donna sono state interrotte le cure che la tenevano in vita. Lo si è potuto fare perché il giudice tutelare ha nominato il padre Giorgio amministratore di sostegno della figlia. In questo modo (e si può ben immaginare quanto gli deve essere costato) il padre ha potuto chiedere che le cure venissero interrotte, e “liberare” Samantha dall’atroce condizione in cui era prigioniera. Una decisione assunta sulla base di una attenta ricostruzione della volontà della ragazza: concordanti testimonianze di genitori, fratelli, amici, che hanno garantito che «Sammy non avrebbe mai voluto una vita così, senza coscienza, dipendente da tutti e da tutto, lo diceva sempre durante la battaglia di Beppino Englaro per la figlia Eluana, e poi per Dj Fabo. La sua vita in quel letto, tra dolori e sofferenze non è vita, non è dignità, è solamente patimento».
Lascia l’amaro in bocca constatare, ancora una volta, che l’umanità di un magistrato riesce ad arrivare dove la politica non sa e non vuole; che per timori, titubanze, o che altro, il Parlamento non riesca, non sappia ancora trovare soluzioni da tempo invocate, richieste, “sentite” dalla pubblica opinione; sia impastoiato e paralizzato da mille “se” e “ma”. Faticosamente la Camera ha approvato un testo, che è un passo nella giusta direzione, ma presenta mille lacune e incongruenze. Soprattutto deve superare le secche del Senato, e non è detto che ce la faccia. La volontà impone ottimismo, che però la ragione non autorizza.
Pensare che era il settembre del 2006 quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano risponde a un accorato appello di Piergiorgio Welby: «Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento».
Poi un “salto”: il 23 dicembre 2019 arriva una sentenza di assoluzione “attesa”: i giudici della Corte d’assise di Milano assolvono il tesoriere dell’associazione Coscioni Marco Cappato, imputato per aiuto al suicidio per aver accompagnato dj Fabo, in una clinica svizzera a morire: “il fatto non sussiste”. La Corte realizza pienamente il significato dell’articolo due della Costituzione che mette l’uomo al centro della vita sociale e non anche lo Stato.
C’era stato già un precedente: una analoga vicenda, risolta allo stesso modo (ma con molto minor clamore), nel gennaio 2014. È il caso di una signora, Oriella Cazzanello; e di un signore, Angelo Tedde, che l’ha condotta in Svizzera, consapevole che anche quello sarebbe stato un viaggio di sola andata. Il Corriere Veneto del 14 ottobre 2015 riassume così la storia: «Vicenza. Assolto perché il fatto non sussiste. Così ha sentenziato il giudice nei confronti di Angelo Tedde, 60enne ligure di Chiavari, che era finito a processo per aver portato a morire l’amica Oriella Cazzanello, 85enne di Arzignano, per averla accompagnata – nel gennaio 2014 – in una clinica in Svizzera, in cui le era stata praticata l’eutanasia. Il pubblico ministero aveva chiesto tre anni e quattro mesi per l’ex portiere d’albergo accusato di aver istigato al suicidio la benestante vicentina, che gli ha lasciato una bella fetta dell’eredità, circa 800 mila euro. «Oriella era convinta, non ha voluto sentire ragione, non c’era modo di farla rinunciare all’eutanasia, ci ho provato fino all’ultimo» ha sempre sostenuto Angelo Tedde, che l’aveva già fatta desistere una volta. Oggi, al termine del processo con rito abbreviato, dopo circa due ore di camera di consiglio, il giudice ha pronunciato la sentenza di assoluzione piena dell’uomo…».
C’è poi il caso di Marina Ripa di Meana. Quale che sia il giudizio che si può dare sulle sue stravaganze, bizzarrie, “eccessi”, e “follie”, merita rispetto per come ha saputo uscire di scena: una grande dignità e lezione di stile. Malata senza più speranza, anche lei preda di sofferenze diventate insopportabili, affida un ultimo messaggio all’amica Maria Antonietta Farina Coscioni, che lo legge in sua vece, un audio-video dove compaiono insieme, trasmesso da Radio Radicale. «Le mie condizioni di salute sono precipitate», dice Marina. «Il respiro, la parola, il mangiare, alzarmi: tutto, ormai, mi è difficile, mi procura dolore insopportabile: il tumore ormai si è impossessato del mio corpo. Ma non della mia mente, della mia coscienza. Ho chiamato Maria Antonietta Farina Coscioni, persona di cui mi fido e stimo per la sua storia personale, per comunicarle che il momento della fine è davvero giunto. Le ho
chiesto di parlarle, lei è venuta. Le ho manifestato l’idea del suicidio assistito in Svizzera. Lei mi ha detto che potevo percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda. Io che ho viaggiato con la mente e con il corpo per tutta la mia vita, non sapevo, non conoscevo questa via. Ora so che non devo andare in Svizzera. Vorrei dirlo a quanti pensano che per liberarsi per sempre dal male si sia costretti ad andare in Svizzera, come io credevo di dover fare». Poi il passaggio chiave del testo: «Voglio lanciare questo messaggio, questo mio ultimo tratto: per dire che anche a casa propria, o in un ospedale, con un tumore, una persona deve sapere che può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze… fatelo sapere».
Un appello, un richiamo a tutti perché si faccia sapere, conoscere. Quante altre storie si potrebbero ancora raccontare, tutte simili: caratterizzate dalla comune sofferenza del malato, e dal dolore e dallo strazio di congiunti impotenti; dalle mille burocrazie che si frappongono a ragionevoli scelte di umanità; e una classe politica di destra, centro, sinistra imbambolata: presa da mille irrilevanti questioni, nelle loro inaccessibili torri d’avorio. Possibile che nessuno di quei parlamentari abbiano un parente, degli amici nelle condizioni in cui si sono venuti a trovare i Welby, i Dj Fabo, le Eluane, le Marine, le Samanthe?
A cosa si deve la loro cinica indifferenza, la loro violenta inerzia? Non si rendono contro che anche di questo e per questo saranno giudicati e condannati, e anzi: già lo sono?