Il voto di domenica doveva essere un test per le politiche dell’anno prossimo. E così è stato. A uscire con le ossa rotte è stato Matteo Salvini che ha dovuto registrare una doppia sconfitta: il disastroso 20,9 per cento dei votanti nei referendum sulla giustizia, che aveva promosso insieme ai Radicali, e la fine della Lega nazionale che aveva lanciato cinque anni fa.
Raggiunto il tetto del 34 per cento alle europee del 2019, da allora ad oggi, il partito ha perso per strada più della metà dei voti ed è stato ampiamente superato da Fratelli d’Italia, la destra atlantista di Giorgia Meloni che adesso rivendica la guida del centrodestra.
Ma va detto che lo strumento referendario appariva già logoro di suo, per il cattivo uso che ne è stato fatto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso se nell’ultimo quindicennio ben otto consultazioni abrogative su nove hanno fallito il quorum del 50 per cento più uno e quindi non sono risultate valide. Questa volta però siamo di fronte al peggior risultato di sempre. Record negativo messo a segno nonostante un election day che ha interessato quasi mille Comuni.
Allora è evidente che siamo di fronte a una disaffezione dalla politica. Con i partiti che non hanno nemmeno fatto campagna elettorale pro o contro i cinque quesiti sulla giustizia. Con lo stesso leader leghista che, dopo averli proposti, li ha abbandonati al loro destino.
E così adesso Salvini deve prepararsi a pagare i tanti errori determinati da una linea politica e contraddittoria. Basti pensare al viaggio (mancato) a Mosca, oppure agli indimenticabili casting fatti in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica, con l’annuncio finale (ai media) che al Quirinale sarebbe arrivata “una donna”: Elisabetta Belloni. Che – tra l’altro – era pure il capo dei servizi segreti.
Le elezioni di domenica non hanno però indebolito il centrodestra che ha vinto al primo turno a Palermo, Genova e l’Aquila e ha confermato la sua forza nelle città in cui si è presentato unito. Un matrimonio di convenienza che, battaglia per la leadership a parte, sembra destinato a durare almeno fino alle prossime politiche.
Più complicata la tenuta del cosiddetto “campo largo” di centrosinistra costantemente evocato da Enrico Letta. Perché in questo caso il futuro dell’accoppiata PD-M5S è legata alla tenuta elettorale dei Cinquestelle che sembrano messi male. Valga per tutti la Waterloo di Parma, dove dieci anni fa è stato eletto il primo sindaco targato Grillo e quest’anno, dopo la rottura con Pizzarotti, il M5S non è riuscito a presentare né una lista né un candidato.