Pare che Matteo Messina Denaro sia parecchio “incaz..to”, per «le notizie che apprendo nei telegiornali». Lo avrebbe riferito lui stesso a non meglio precisate “fonti sanitarie e penitenziarie” del carcere di massima sicurezza dell’Aquila, dove è detenuto in 41bis.
Curiosa “massima sicurezza”, ancor più curioso 41bis, se poi ci sono delle “fonti” sanitarie e penitenziarie che si preoccupano di “pizzinare” all’esterno gli umori e il malcontento del boss: che si lamenta delle «balle frutto di fraintendimenti». Infine la “notizia”: Messina Denaro contrariamente ai primi giorni di reclusione, ora guarda con attenzione la televisione. Tu chiamale se vuoi, “connessioni”.
Ospite della trasmissione In onda su La 7 il procuratore Nino Di Matteo sostiene che boss della Cosa Nostra temono l’ergastolo e mai si rassegnano a morire in carcere. Comprensibile. Aggiunge che chi vuole avere qualche speranza di scampare a quella condanna ha una sola via d’uscita: collaborare con la giustizia. Dopo qualche minuto gli viene chiesto che cosa chiederebbe, dovesse interrogarlo, al boss Matteo Messina Denaro. Si schermisce, è una domanda alla quale non può rispondere. Però elenca segreti e misteri di cui il boss sarebbe depositario. Messina Denaro e gli altri boss in carcere ora sanno “ufficialmente” cosa si vuol sapere da loro; che cosa interessa che dicano. L’avesse fatto un altro si sarebbe forse parlato di “connessioni”; chissà, magari perfino di tentativo di “trattativa”.
Chi si chiede se l’agenda rossa di Paolo Borsellino possa essere nella disponibilità di Matteo Messina Denaro forse non si rende ben conto della bestialità che propala: l’agenda era
certamente a Via D’Amelio e dopo l’attentato, prima di sparire, passa di mano in mano a uomini delle istituzioni (carabinieri e l’allora parlamentare Giuseppe Ayala). Sostenere che l’abbia Messina Denaro significa dire che qualcuno di loro l’ha consegnata a uomini della Cosa Nostra. Se si è convinti di questo non lo si insinua, non si fanno allusioni. Lo si dice chiaro e forte e ci si assume la responsabilità di quanto si sostiene.
Bizzarro paese, l’Italia: abbondano in politica e nella società che si suol definire “civile” (di quale civiltà si potrebbe discuterne), i “garantisti”. Ma sono di genere particolare: quasi sempre orbi d’un occhio. Masticano di diritto, legge, giustizia, ma a corrente alternata: quando un mandato di cattura o altro provvedimento giudiziario li colpisce, o colpisce persone della loro “famiglia” (politica o comunque di appartenenza), scattano come molle. Per il resto, stanno quieti; anzi, cercano di ricavare qualche profitto, se la parte colpita è a loro avversa. Con buona pace se il provvedimento in questione sia o no fondato.
È l’antica doppiezza della vita italiana: buono e giusto è quel che fa la parte cui si appartiene, da cui si trae qualche vantaggio; cattivo, ingiusto, da punire la stessa identica azione se commessa da altri. Da quando risalga questa doppiezza lo stabiliscano studiosi e ricercatori; di sicuro il fascismo mussoliniano e certo fascismo che s’ammanta d’antifascismo hanno “solo” alimentato e perfezionato qualcosa di preesistente, da tempo praticato.
È un “garantismo” peloso, pochi sanno sottrarsene. Appartiene a un tumore che si è insinuato e profondamente radicato nel “comune sentire”. Valga un esempio: un politico si viene a trovare implicato in una inchiesta che poggia su presupposti piuttosto fumosi e fragili; non gli evita tuttavia il rinvio a giudizio, l’arresto. Il collega di un altro partito, suo amico, volendogli esprimere simpatia e comprensione, non si limita a un “In bocca al lupo”, verga un biglietto con: «Ti auguro di poter provare la tua innocenza». Ecco il tumore che produce i suoi devastanti, micidiali effetti: in uno Stato di diritto, che vuole garantire il rispetto delle regole (l’essenza cioè del garantismo), non è l’imputato che deve provare la sua innocenza; piuttosto la pubblica accusa che deve dimostrare la colpevolezza. Se non ci riesce, quale che sia l’imputato, non va e non può essere perseguito.
I “garantisti”, vale a dire i cultori e i difensori delle regole, si trovano dunque ad assolvere un compito ben gravoso: quello di ricordare ed esigere agli immemori l’esistenza del diritto, rivendicare esistenza e primato di fronte ai giochi di potere che lavorano per l’esatto contrario: vuoto del diritto, il suo stravolgimento: l’Italia, che certa retorica vuole sia la “culla del diritto”, effettualmente, quotidianamente, ne è la bara. E si ha un bel citare il caso capitato ad Enzo Tortora. Di simili, e perfino più gravi e devastanti ne accadono ogni giorno, e non solo in quella procura della Repubblica che quella vicenda volle imbastire.
C’è chi ha teorizzato che chi ha a che fare con la legge o appartiene alla categoria dei colpevoli, o a quella che sono riusciti in qualche modo a farla franca. È la variante del “non c’è fumo senza arrosto”: se si viene accusati di qualche reato, qualcosa si deve pur aver fatto; chi ha la coscienza a posto non ha nulla da temere. Poi accade che chi quella coscienza ce l’ha netta si trovi ugualmente vittima di quei meccanismi così ben raccontati da Franz Kafka. La crisi dell’amministrazione della giustizia in Italia è purtroppo un’emergenza di cui non si riesce a scorgere la fine; e la questione del rispetto delle “regole” non è questione astratta da affidare a specialisti e studiosi. È “affare” che, al pari della famosa “campana” di John Donne, suona, riguarda e coinvolge tutti.