Appunti da un vecchio e sdrucito taccuino. Agosto 2012, Locarno, Canton Ticino. Arriva un mito: alle spalle una discografia sterminata, almeno trenta album, dal primo del 1954, Mark Twain and other Folk Favourites, all’ultimo del 2001, The Long Road to Freedom, An Anthology of Black Music; con il solo Calypso ha venduto oltre un milione di copie; ha duettato con Bob Dylan, Lionel Richie, Stevie Wonder e Bruce Springsteen.
E il cinema: comincia con ’Bright Road’ del 1953; si snoda con ’Carmen Jones’, di Otto Preminger: trasfigurazione dell’omonima opera di Bizet in chiave afro-americana contemporanea: un successo mondiale meno che in Francia, dove per la miopia degli eredi di Bizet, irritati per chissà quale maestà lesa, fecero in modo che il film venisse vietato; e ancora: L’Isola nel sole, The Heart of Show Business, La fine del mondo, Non predicare…spara!.., fino agli ultimi, Conakry Kas e Ladders. Per tutti Harry Belafonte, è il ’re del Calypso’, ha reso popolare la musica caraibica negli anni Cinquanta.
«Ancora adesso quando mi trovo da qualche parte, anche se non dicono nulla, indovino dalle espressioni di chi mi guarda che si aspetta da un momento all’altro che mi metta a cantare Banana Boat Song o Matilda», dice con un sorriso divertito, ma l’espressione è anche quella di chi vorrebbe non essere inchiodato a facili stereotipi.
Belafonte a Locarno è premiato con il ’Pardo alla carriera’; quando si presenta sul palco della piazza Grande dove siamo in cinquemila e più, riceve una standing ovation che non finisce più. Un tributo che visibilmente commuove questo gigante, quell’anno ha festeggiato gli 85, ne dimostra una ventina di meno e mostra una vitalità che il tempo non scalfisce. E non smentisce la fama di artista impegnato nelle cause in cui crede (è il primo afro-americano a ricevere, nel 1989, il Kennedy Center Honors): «Shakespeare, Dostoevskij, Pirandello sono molto importanti. Ma penso anche che tutta l’arte è politica».
Nasce a New York nel 1927, da ragazzo con la madre si trasferisce ad Aboukir, un villaggio della Giamaica. Nel 1939 torna a New York, frequenta la George Washington High School, si arruola in Marina. A guerra finita si esibisce con l’American Negro Theatre.
«Da giovane», racconta, «facevo lavoretti come pulire i vetri delle finestre degli hotel. Una volta come mancia mi sono stati dati dei biglietti per spettacoli teatrali. Così ho conosciuto la magia del teatro e ho scelto di non andarmene più. Sono rimasto prima tra il pubblico, poi ho capito che volevo fare l’attore e ho studiato recitazione. Ho intuito che il teatro poteva arricchirmi, rendermi una persona migliore. Ho avuto un insegnante fuggito dalla Germania nazista che mi ha dato moltissimo, ho avuto come compagni di studi Marlon Brando, Walter Matthau, Rod Steiger, Tony Curtis… Marlon è stato uno dei miei migliori amici, tante volte si è schierato al mio fianco, nelle battaglie che ho combattuto per i diritti civili. Per me è stato una grande fonte di ispirazione, il Picasso della recitazione. Marlon aveva un’idea precisa della vita e dell’impegno, tutti i film che ha fatto sono stati scelti con l’idea che, nell’essere artista, c’è uno scopo. Per lui, ma anche per me, gli artisti sono i guardiani della verità, e se le loro voci venissero messe a tacere la società crollerebbe».
Dice di avere un grosso debito di gratitudine nei confronti di Preminger, che lo dirige in Carmen Jones: «Vede, Otto lasciò la Germania di Hitler; e fino a quando non realizzò ’Carmen Jones’, le persone di colore venivano rappresentate come esseri subumani, privi di storia, di cultura. Venivamo visti come comunità da proteggere, a nessuno veniva in mente che potevamo aver sviluppato le nostre società ben prima dell’intervento europeo. Quando Otto fece ’Carmen Jones’ vide il film come un’opportunità per trattarci alla stregua di chiunque altro. Ora sembra niente dirlo, ma pensi a quando il film venne fatto, pochi anni fa, eppure tutta un’altra epoca… Fare un film del genere a Hollywood era molto pericoloso. Molti produttori dissero di non credere il quel progetto, così Otto investì denaro di tasca sua. Per la prima volta è apparsa sul grande schermo una bella donna nera. Fino a quel momento le donne erano sempre schiave grasse o cameriere che si piegavano di fronte ai padroni bianchi, e anche gli uomini venivano mostrati intenti a svolgere lavori umili».
Anche lei, in quanto a impegno non scherza…
«Io sono cresciuto povero e quando ho iniziato a diventare famoso ho deciso di usare la visibilità per le cause che ritengo importanti. Sono stato influenzato da tre persone: Eleonore Roosevelt, una grandissima donna che lottava per l’uguaglianza e che mi ha chiesto di collaborare con lei; l’avvocato Paul Robertson, un personaggio molto influente nella comunità afroamericana capace di leggere e scrivere in ventidue lingue, molte delle quali erano dialetti africani o lingue asiatiche; e naturalmente Marthin Luther King».
Quando l’ha conosciuto?
«Aveva ventiquattro anni, due meno di me, era il 1953. Era molto giovane, per avere la responsabilità di guida della comunità afroamericana, ma era già un leader. Mi disse che la cosa più importante, nella lotta per la conquista dei diritti civili, era parlare, farsi conoscere dai nemici per spingerli a cambiare. Quando per esempio ho incontrato i Kennedy non erano nostri amici; erano gentili, ma non erano interessati realmente alla nostra causa. È stata la reciproca conoscenza a unire il nostro cammino per scopi politici».
Lei dice di sentirsi più attivista che artista.
«Anche se le due cose non possono essere scisse io mi sento un attivista diventato artista, e non un artista che si impegna politicamente. Ho subito visto nella forza dell’arte la possibilità di lottare per la liberazione degli ultimi. Come ho detto sono nato e cresciuto nella povertà e molto presto ho preso l’impegno di cambiare le condizioni di vita di mia madre, della mia famiglia, dei vicini. Tutte persone che soffrivano a causa della loro condizione sociale. Quando poi ho scoperto il teatro mi sono reso conto del potere di cui disponevo, di cosa significhi essere ascoltati. Così ho capito di avere una grande opportunità, il teatro è diventato la mia bandiera di libertà. Certo, ho anche avuto molta fortuna, il successo e la celebrità mi hanno aiutato molto».
Prima parlava di Martin Luther King…
«È stato molto importante per me. Ricordo come fosse ora il 28 agosto del 1963, la conclusione di una marcia di protesta per i diritti civili al Memorial Lincoln di Washington. Ero lì, quando pronunciò quel discorso che per la sua forza dirompente sconvolse le coscienze del mondo: “I Have a Dream”. Un discorso che ha segnato la storia degli Stati Uniti d’America. Un’emozione, un’intensità tale che non lo scorderò mai».
Lei ce l’ha un sogno?
«I miei sogni sono tanti: la fine della guerra, la pace, un mondo migliore… Se penso a quello che accade in America e nel mondo provo una pena infinita».
Crede sia finito il sogno americano?
«Il mio Paese detiene il record della popolazione carceraria più alta al mondo: più di Cina o India, che sono più popolosi degli Stati Uniti. La maggior parte dei penitenziari americani, è abitata da giovani uomini di colore. È una tragedia immensa che avrà conseguenze molto gravi. Se vogliamo davvero essere un Paese guida capace di ispirare in termini di libertà, dobbiamo trovare la forza di cambiare profondamente. Per essere credibili, dobbiamo lottare di più per la verità. Io sono ottimista, ma al tempo stesso non mi nascondo che stiamo vivendo un momento particolarmente pericoloso».
In che senso pericoloso?
«Guardi quello che accade in questa campagna elettorale, con i Tea Party, che stanno devastando il clima sociale. Mutano le leggi quasi di nascosto: ora si può essere arrestati senza motivo, puoi finire in prigione e non vedere per giorni il tuo avvocato. Non è questa l’America in cui credo».
Per la prima volta alla Casa Bianca c’è un uomo di colore. Lei aveva sostenuto e si è battuto per Barak Obama. Deluso dalla sua presidenza?
«Sì, ma voterò ancora per lui, non c’è scelta».
Perché deluso?
«Non ha usato bene il potere che ha avuto, anche se forse non poteva fare di meglio e di più. Sono fiero che un uomo di colore sia diventato presidente degli Stati Uniti, non per il suo colore della pelle, ma per gli americani che lo hanno votato senza badare al colore della sua pelle».