Da quando si è accesa la spia rossa per i fondi del Pnrr destinati al nostro Paese, è ormai evidente che l’Italia non riuscirà a incassare tutti i 192 miliardi generosamente assegnati dall’Ue. E, quindi, con buona pace della propaganda del governo guidato da Giorgia Meloni, Roma si sta giocando il futuro e quel poco di reputazione che era riuscita a riconquistare con Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Per farla breve, non riusciamo a rispettare il Piano industriale sottoscritto con l’Ue. Né il ferreo meccanismo della rendicontazione da inviare a Bruxelles consente scappatoie. Sulle ragioni dei ritardi fioriscono adesso dibattiti e polemiche politiche destinate a crescere in vista della campagna elettorale per le europee di giugno 2024. C’è chi accusa la solita burocrazia italiana, che blocca e rallenta avvolgendo opere e riforme in una tela di norme complesse e spesso inutili. C’è chi accusa l’attuale governo d’aver smantellato la struttura di tecnici voluta da Draghi per l’attuazione delle opere concordate con Bruxelles, d’aver stravolto la “governance” del Pnrr, d’aver messo tutto nelle mani del ministro Fitto accentrando a Palazzo Chigi il vero potere decisionale.
Governo e maggioranza replicano che i ritardi delle opere concordate dall’Italia si spiegano soprattutto con quello che è cambiato dalla nascita del Pnrr ad oggi: guerra in Ucraina e crisi energetica, esplosione delle bollette e inflazione.
Tutto vero. Ma se queste sono ragioni congiunturali, bisogna aver il coraggio di andare ai problemi di fondo di un sistema Paese che ormai non sembra più in grado di realizzare progetti per il futuro. Un Paese dove non si costruisce una grande infrastruttura da una quarantina d’anni. Un Paese che in mezzo secolo ha smantellato industria chimica, siderurgia e – dopo l’abbandono della Fiat – perfino l’industria dell’auto. Un Paese dove solo nove anni fa il fondatore di Cinquestelle Beppe Grillo teorizzò la “decrescita felice” e il “blocco grandi opere”.
Oggi quindi il Pnrr può essere visto come stress test, uno strumento per misurare la nostra capacità di competere con i paesi industriali che contano nell’Ue. Il risultato impietoso dell’esame adesso è determinato dalle ferree regole di valutazione e controllo messe a punto da Bruxelles. Infatti la Commissione europea ogni sei mesi autorizza l’erogazione dei fondi solo se gli Stati membri hanno raggiunto gli obiettivi previsti nella realizzazione degli investimenti e delle riforme programmati.
A questo punto il blocco dei 16 miliardi della quarta rata (dicembre) sembra ormai inevitabile, in quanto l’Italia è in ritardo sui 27 obiettivi che dovrebbe raggiungere entro il prossimo 30 giugno. Intanto il governo italiano cerca di incassare i 19 miliardi della terza rata, attualmente bloccata da Bruxelles a causa dell’inserimento di due stadi di calcio (Firenze e Venezia) tra le opere da finanziare con i fondi comunitari.