Essere contemporaneamente d’accordo con chi sostiene la libertà di opinione dello storico e filologo Luciano Canfora di potersi esprimere come si è espresso nei confronti di Giorgia Meloni; e al tempo stesso capire che Giorgia Meloni si sia risentita per quello che Canfora ha detto sul suo conto: essere una sorta di neo-nazista “dentro”… La presidente del Consiglio querela.
Capisco la libertà di opinione e di espressione, sancite dalla Costituzione e fondamento di ogni regime democratico e liberale. Capisco anche il gusto per l’iperbole, anche se in una recente intervista Canfora ha sostenuto di essere convinto e per nulla pentito di quello che ha detto. Capisco che un presidente di alta istituzione (del Consiglio compreso) non si dovrebbe abbassare, non foss’altro per mera convenienza: se vincerà nessuno fugherà il dubbio che l’alta carica ricoperta abbia “pesato”; se perderà, il “marchio” la inseguirà tutta la vita, e ciascuno di noi sarà autorizzato a replicarla…
Dopo aver capito mi permetto di obiettare che, se qualcuno sostenesse che sono “neonazista nell’animo” un moto almeno di stizza lo proverei: ne sarei parecchio incavolato.
Lo dice uno che è stato accusato, da un antimafioso di quell’antimafia molto apprezzata, di «scrivere quello che alla mafia fa piacere sia scritto»: ha fatto parte di quello stesso movimento che a suo tempo ha avuto l’improntitudine di denunciare al Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Falcone, sostenendo che si teneva ben chiusi nel cassetto gli elementi che avrebbero consentito di fare luce sui delitti eccellenti che insanguinavano Palermo e la Sicilia. Avvilente fu assistere a un Falcone costretto a difendersi, dinanzi al Csm da quelle accuse. Non ho presentato querela, ma solo per sfiducia in chi deve giudicare, non perché non ritenga sanguinosa l’offesa patita.
Questa delle querele nei confronti dei giornalisti è questione annosa e spinosa. Ovvio che un giornalista non ha la libertà e la licenza di infamare e rovinare reputazioni e onorabilità; ovvio che deve rispondere di quello che scrive. Al tempo stesso…
Molti anni fa ho prestato la mia firma di direttore responsabile a un settimanale umoristico, Il Male. In pochi mesi, sberleffi e sfottò, mi hanno procurato un centinaio di denunce e querele. Un po’ tutte si sono risolte, la maggior parte non avevano fondamento. Per una sola querela me la sono vista brutta: il tribunale di Perugia mi condannò per una vignetta, colpevole di omesso controllo, a due anni e sei mesi di reclusione senza il beneficio della condizionale. In appello, il tribunale di Orvieto, confermò la condanna. A questo punto, in attesa della Cassazione, feci quello che non si dovrebbe fare: chiedere aiuto alla politica. Venne presentata un’interrogazione firmata da una cinquantina di parlamentari, c’erano esponenti di tutti i partiti: si cominciava con Abbatangelo (Msi), si finiva con Violante (Pci). La Cassazione individuò un vizio di forma, spedì tutto a L’Aquila, là il processo si è perso. Da parte dei colleghi e degli opinionisti, nessuna reazione, se non rare eccezioni: Oreste del Buono, Giorgio Forattini, Indro Montanelli, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Leonardo Sciascia, Salvatore Sechi; l’allora presidente della Federazione della Stampa Miriam Mafai, investita del caso, disse di non saperne nulla; e nulla fece quando seppe. È certamente una coincidenza: la vignetta così draconianamente punita, riguardava un magistrato romano.
L’altro caso riguarda il nazista Erich Priebke condannato per l’eccidio alle Fosse Ardeatine, vicenda che ho seguito per il Tg2. Immagino per servizi poco graditi sono stato querelato da Priebke. Assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Pago di tasca mia l’avvocato; avrei diritto, come dice sentenza, a un risarcimento; rinuncio non volendo un centesimo da un simile individuo; non ci penso più. Ci pensa un paio d’anni dopo l’Agenzia delle Entrate a ricordarmi l’episodio: devo pagare le spese processuali. Chiedo lumi: Priebke risulta nullatenente; lo Stato non può rimetterci; se non paga chi ha perso, paga chi ha vinto. Si minaccia il blocco dei beni. Protesto. Mi si risponde che dopo aver pagato, posso rivalermi nei confronti del nazista per recuperare quello che ho pagato. Complimenti: non ci riesce lo Stato, ci riesce il singolo. Penso all’assurdità di quel «lo Stato non può rimetterci». Io, cittadino italiano, non sono parte, sia pure minima, dello Stato? La protesta pubblica sembra ottenere lo scopo: qualcuno fa sapere che l’Agenzia delle Entrate soprassiede. Non è vero. Un paio d’anni ancora e ritorna
l’ingiunzione.
A questo punto, logorato, decido di pagare quelle poche centinaia di euro che mi sono chieste: uno scorno a cui si aggiunge la beffa: ne parlo con alcuni avvocati. Mi guardano come se fossi un marziano, replicano che non sono l’unico caso, accade, è accaduto, accadrà. Per loro è normale che si possa essere querelati, si possa vincere la causa e pagarne comunque le spese. Ne parlo con alcuni politici amici. Ascoltano distratti, promettono vaghi interventi. È accaduto cinque o sei anni fa. Naturalmente non hanno fatto nulla…
Nel 1911 Benedetto Croce raccomandava a Giovanni Amendola, riferendosi a un guaio giudiziario capitato a Giuseppe Prezzolini, di stare il più lontano possibile dai tribunali e dai magistrati, che non si sa mai… Auguro a Luciano Canfora ogni possibile fortuna. Spero che Giorgia Meloni ritiri la querela. Per quel che mi riguarda faccio tesoro di quella lettera di “don” Benedetto: 113 anni sono passati invano.