Saffo, Ipazia, Fatima Al-Fihriya, Abella Salernitana, Dorotea Bucca. La strada dell’emancipazione femminile è dura e lunga soprattutto nel mondo della cultura. Ma alcune donne già nella Grecia e in Roma antica e poi nel Medioevo sono riuscite ad emergere nel mondo degli studi superiori e poi delle università, un tempo dominio incontrastato degli uomini. Maria Luisa Berti ci racconta come avvenne.
Nell’antica Grecia le donne erano escluse dalla vita sociale: mogli e madri, relegate in casa. Avevano un certo ruolo sociopolitico le sacerdotesse dei culti sacri, soprattutto le Vestali.
Solo le etèree erano libere: oltre a prestazioni sessuali, tenevano compagnia ai clienti, potevano esibirsi in spettacoli musicali o di danza e, soprattutto, potevano gestire i propri averi ed uscire di casa quando volevano. Potevano avere anche un peso sulla società e sulla politica come nel caso di Aspasia, la concubina di Pericle.
All’interno delle mura domestiche le madri trasmettevano alle figlie il loro sapere ma le donne non potevano di certo frequentare le scuole fondate da filosofi maschi che vi insegnavano.
Caso raro quello della poetessa Saffo (Eresos di Lesbo 630 a.C.; Leucade 570 a.C.) che fu direttrice e insegnante di un tiaso, una sorta di collegio in cui veniva curata l’educazione di fanciulle di famiglia nobile, educazione fondata sui valori che la società aristocratica di allora richiedeva a una donna: l’amore, la delicatezza, la grazia, il canto.
Durante l’età ellenistica, in Alessandria, una donna teneva lezioni pubbliche sul pensiero di Platone e di Aristofane: Ipazia, nata ad Alessandria nel 355 ed ivi torturata e uccisa nel marzo del 415. Era figlia di Teone, illustre matematico e astronomo che lavorava nel Museo, e da lui imparò le scienze matematiche e l’astronomia, poi si dedicò agli studi filosofici e alle sue lezioni gli uditori e i discepoli divennero numerosi. Anche gli amministratori pubblici si riferivano a Ipazia quando dovevano prendere decisioni importanti: era amata e rispettata per il suo sapere, per la sua dialettica e per la sua assennatezza.
Era invece invisa ai cristiani fanatici, fomentati dal vescovo Cirillo. Il filosofo Damascio racconta: «Era poi accaduto che Cirillo, il vescovo della fazione opposta, passando presso la casa di Ipazia, vide presso le porte molta confusione di uomini e cavalli, alcuni arrivavano, altri partivano, altri sostavano. Avendo chiesto poi cosa fosse quella folla e quella turba presso la casa, sentì [rispondere] dal seguito che Ipazia, la donna filosofo, stava spiegando, e quella era la sua casa. Avendo appreso questo, fu amareggiata la sua anima così da predisporre il suo omicidio, il più efferato di tutti gli omicidi». Ipazia inoltre aveva buone relazioni con il prefetto Oreste, inviso al vescovo. Infatti uno dei suoi fanatici, colpevole di un’aggressione al prefetto, era stato torturato e ucciso, suscitando l’ira di Cirillo.
La fine di Ipazia era vicina. Una folla di monaci fanatici, circondata la sua casa, la trascinarono fuori a furia di botte e, dentro la chiesa, la spogliarono e squartarono, strappandone la carne con cocci e tegole, poi bruciarono i suoi poveri resti per cancellarne la memoria.
Durante l’illuminismo molti scrittori hanno ricordato il suo nome, il suo pensiero e la profondità dei suoi studi. Da allora Ipazia è diventata un simbolo della libertà di pensiero e dell’indipendenza della donna, martire del paganesimo e in generale del dogmatismo fondamentalista.
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