Debito 3.000 miliardi,
emigrati 3.200.000

Il problema del debito pubblico italiano, senza l’intervento di emergenza della Banca centrale europea negli anni 2020-2023, che ha acquistato centinaia di miliardi di euro di nostri titoli di Stato, sarebbe esploso e avrebbe trascinato il nostro Paese, e l’Europa intera, in una situazione drammatica da ogni punto di vista.

Christine Lagarde presidente della Banca centrale europea

A febbraio 2024 la Banca centrale europea aveva ancora in portafoglio 405 miliardi di titoli italiani, relativi al programma Pspp, e altri 285 miliardi relativi al programma Pepp, un totale di 690 miliardi, vale a dire circa un quarto dell’intero debito pubblico italiano.

Il nostro debito pubblico ha comunque continuato a crescere in valore ed è risultato pari a 2.948,5 miliardi al 30 giugno 2024. La soglia “simbolica” dei 3.000 miliardi di euro è quindi ormai vicinissima e si prevede sarà raggiunta e superata tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. Inoltre, anche il rapporto tra debito e prodotto interno lordo risulta essere sempre molto elevato, e oscilla ora fra il 135 e il 140 per cento, il quinto valore più alto al mondo dopo Sudan, Giappone, Singapore e Grecia.

Da questa situazione derivano altissimi e crescenti costi, ogni anno, per la nostra finanza pubblica e, quindi, per i contribuenti. Il documento NADEF del governo Meloni, pubblicato nella primavera 2024 descrive così la situazione: gli interessi passivi pagati nel 2023 sono stati 78,611 miliardi di euro, pari al 3,8 % del PIL, e si prevede che nel 2026 saranno pari al 4,6 % del PIL, stimabili quindi in circa 100 miliardi di euro all’anno. Una cifra enorme che dovrà essere controllata e ridotta, con inevitabili conseguenze su pressione fiscale e restrizione della spesa pubblica nei settori più esposti: sanità, previdenza, politiche sociali e istruzione, che ne costituiscono una quota del 60 per cento circa.

Inoltre, la Banca centrale europea aveva anche determinato, con il suo intervento, un efficace controllo sul cosiddetto spread, la differenza tra il tasso dei titoli di stato italiani a dieci anni e i Bund tedeschi di identica durata, che notoriamente è considerato come un indicatore di affidabilità o non affidabilità del debitore.

Siamo infatti ormai abituati a seguire l’andamento dello spread e, se non rivela anomalie, siamo portati a pensare che il problema del debito sia sotto controllo. Ma questa visione è parziale e può indurci in un grave errore. In realtà, anche se lo spread rimane inalterato, il costo del debito può aumentare in modo molto pericoloso per il bilancio pubblico.

Si apre la porta sul Consiglio dei ministri

E questo, infatti, è proprio ciò che è avvenuto in questi anni. A settembre 2020 lo spread dei BTP a 10 anni era intorno ai 140/150 punti, lo stesso valore che si registra anche nel settembre 2024. Ma nel 2020 il tasso pagato per i BTP a 10 anni era pari a 1,6-1,7% mentre ora è pari a 3,6-3,7%, oltre due volte in più. Ciò significa che – anche se lo spread è rimasto invariato – il nuovo debito e il debito in scadenza da rinnovare ci costano, appunto, più del doppio. E ricordiamoci che il Tesoro italiano deve emettere ogni anno grandi quantità di nuovi titoli anche solo per il rinnovo dei titoli in scadenza: nel corso del 2024, ad esempio, devono essere rinnovati quasi 400 miliardi di euro.

La questione del debito pubblico italiano va dunque affrontata non solo in termini di rischio sui mercati finanziari, ma anche per gli effetti fortemente restrittivi che provoca direttamente sulla spesa pubblica e sociale, e sugli investimenti per lo sviluppo.

Già nel 2011 si registrò in Italia una grave crisi finanziaria e politica con lo spread che, il 9 novembre, raggiunse i 575 punti, con un debito che allora, ricordiamolo, era pari “solo” a 1.898 miliardi, molto meno dei 3.000 miliardi di oggi.

Si decise così di cambiare rotta e di introdurre in Costituzione, modificandone l’articolo 81, il pareggio di bilancio come vincolo di principio per la finanza pubblica. Il parlamento – durante il governo Monti – approvò celermente e con una maggioranza superiore ai due terzi la nuova norma costituzionale, che entrò subito in vigore. Ma, come capita spesso nel nostro paese, la norma solennemente approvata è stata da allora derogata anno dopo anno – talvolta con validi motivi emergenziali, e talvolta no – con un voto di Camera e Senato a maggioranza assoluta chiesto e ottenuto dai governi in carica.

Espatriati, Giancarlo Giorgetti ministro dell'Economia

Giancarlo Giorgetti ministro dell’Economia

Sarebbe dunque ora finalmente il caso, con il debito pericolosamente arrivato a 3.000 miliardi di euro, di abbandonare la politica delle deroghe e di affrontare davvero, e seriamente, il problema. È ciò che ha chiesto, nel corso del suo intervento al Meeting di Rimini il 21 agosto scorso, Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia. «Il problema cruciale» ha detto Panetta «rimane la riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto. Un debito elevato rende più onerosi i finanziamenti alle imprese, frenandone la competitività e l’incentivo a investire; espone l’economia italiana ai movimenti erratici dei mercati finanziari. Sottrae risorse alle politiche anticicliche, agli interventi sociali e alle misure a favore dello sviluppo. L’Italia è l’unico paese dell’area dell’euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione». E, aggiunge, «Affrontare il nodo del debito richiede politiche di bilancio orientate alla stabilità e al graduale conseguimento di avanzi primari adeguati. Tuttavia, la riduzione del debito sarà ardua senza una accelerazione dello sviluppo economico».

La crescita economica e produttiva, la modernizzazione del paese saranno dunque fattori decisivi ma per raggiungerli, ricorda ancora Panetta, «dobbiamo affrontare con decisione i problemi strutturali irrisolti». E, a questo proposito, cita diversi problemi: «Dobbiamo concentrarci sulle finalità essenziali: rafforzare la concorrenza, potenziare il capitale umano, accrescere la produttività del lavoro, aumentare l’occupazione di giovani e donne, definire politiche migratorie adeguate».

Ma la situazione attuale e la volontà politica del governo in carica su questi punti appaiono al momento sfavorevoli o addirittura fuori strada. Sulla concorrenza siamo, per fare solo un esempio, ancora in ostaggio dei balneari.

Sul potenziare il capitale umano registriamo il fatto negativo che – come dice l’Istat nel Report del 28 maggio 2024 – continua l’esodo di italiani: altri 207.000 italiani sono ufficialmente espatriati nel biennio 2022-2023 (senza contare i molti che, essendo espatriati da poco tempo, non sono ancora iscritti all’AIRE). E, attualmente, solo in Europa, sono ben tre milioni e 200 mila gli italiani espatriati e iscritti all’AIRE.

Sulla terza questione, la produttività, il rapporto mondiale annuale dell’Istituto IMD di Losanna segnala che nel 2024 l’Italia occupa un deprimente 42° posto in classifica.

Fabio Panetta governatore della Banca d’Italia

L’occupazione di giovani e donne resta scarsa, troppo precaria e poco qualificata, fattore questo che spiega anche i motivi della nostra emigrazione giovanile se, come certifica l’Istat, il 52 per cento degli espatriati italiani degli ultimi due decenni ha una età compresa fra i 18 e 39 anni.

Le politiche migratorie in atto non appaiono certo – come chiede Panetta – “adeguate”. Ad esempio, l’integrazione sociale e culturale degli immigrati è tuttora un miraggio, quando non viene esplicitamente contrastata. Perfino il cosiddetto “ius scholae”, già da tempo esistente in altri paesi europei, come ad esempio in Grecia, è in Italia rifiutato dai vertici del governo, e viene comunque presentato come una novità sconvolgente e non invece come un atto utile e necessario nei confronti di chi ha scelto di vivere nel nostro paese, e come una opportunità di vera integrazione sociale.

Infine, la questione decisiva dello sviluppo economico, necessario per determinare un forte incremento del prodotto interno lordo e implicitamente ridurre il fardello del debito, richiederà una capacità di investimento permanente, a livello italiano non limitata all’attuale faticosa e lenta attuazione del Pnrr, e a livello europeo con la attivazione di grandi progetti di investimento comunitari nei settori produttivi più avanzati, insieme ad un vero rafforzamento della integrazione comunitaria.

Vedremo dunque, e anzitutto, nella prossima legge di bilancio come e quanto il governo Meloni ascolterà le indicazioni di Fabio Panetta che, del resto, proprio l’attuale governo ha scelto come governatore della Banca d’Italia l’anno scorso, nel 2023.

Si tratta di decisioni che, per la loro rilevanza strutturale, dovrebbero inoltre indurre il governo in carica ad abbandonare l’atteggiamento di autosufficienza e di “opposizione alla opposizione” che lo ha finora contraddistinto, e a cercare invece il dialogo con l’insieme delle forze politiche, economiche e sociali del nostro paese. Si tratta infatti di decisioni strategiche, che per loro natura richiedono tempi non brevi di attuazione, e alle quali deve dunque essere assicurata negli anni una vera continuità operativa, fatto questo che solo un effettivo e ampio consenso politico e sociale può garantire.