«La magistratura brasiliana ha probabilmente inviato un importante segnale al mondo che non è obbligato a tollerare l’ideologia di ultra destra per la semplice ragione che lui è ricco». Con queste parole il presidente del Brasile Luis Inácio Lula da Silva (Lula) ha offerto il suo supporto a Alexandre de Moraes, giudice del Tribunale Federale Supremo, per la sospensione di X (già Twitter), che come si sa, è di proprietà dell’ultra ricco Elon Musk.
Secondo Moraes, X ha postato messaggi di odio e falsità negli apparati elettronici del sistema elettorale nel suo Paese. Moraes ha anche accusato Musk di non avere nominato un rappresentante legale di X nel Paese sudamericano. X è stato bloccato in Brasile. Moraes ha fatto sul serio con l’imposizione di una multa di quasi 9 mila dollari a chiunque cercasse di raggirare il divieto mediante l’uso di un VPN (Virtual Private Network) che nasconde il luogo di residenza dell’utente. Moraes ha inoltre ordinato il blocco dei conti bancari di Starlink, il servizio internet satellitare di Musk.
La reazione di Musk era prevedibile. Si è rifugiato nel principio di libertà di espressione contrario a ogni tipo di censura. Ecco come ha sempre giustificato il rifiuto della piattaforma di controllare informazioni non veritiere. Musk sostiene che X ha già un meccanismo per eliminare post “potenzialmente fuorvianti” e falsi. Poi ha attaccato personalmente il giudice Moraes accusandolo di essere “un dittatore e un impostore”, aggiungendo che comunicherà ai brasiliani i “crimini” del giudice, senza però dare alcuna precisazione. Una reazione tipica usata ripetutamente da Donald Trump.
Moraes ha però ragione che X propaga disinformazione. Il giudice ha citato numerosi post nella piattaforma che hanno fomentato la reazione violenta dei sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro. Dopo la sua sconfitta nell’elezione del 2022 Bolsonaro cercò di usare il manuale di Trump sulla frode elettorale che gli avrebbe rubato la vittoria. Scatenò una rivolta nella capitale Brasilia che alcuni hanno classificato un colpo di Stato, non tanto diverso da quello che fece Trump il 6 gennaio del 2021.
Che Musk stesso utilizzi disinformazione si vede quasi ogni giorno sui suoi post. Continua a ripetere che in America votano i migranti senza documenti e che i democratici gli aprono le porte per ottenere successi alle urne. Musk sa benissimo che per votare in America è necessaria la cittadinanza ma la balla dei non cittadini che votano è un cavallo di battaglia di Trump che Musk continua a riciclare.
Il Center for Countering Digital Hate (CCDH), un gruppo senza scopi di lucro inglese, che si occupa di fermare i discorsi di odio nel campo digitale, ha analizzato i post di Musk. Il gruppo ha calcolato che Musk ha propagato più di 50 informazioni false o fuorvianti dal mese di gennaio a fine luglio del corrente anno che sono stati visionati da un miliardo di individui. Questi post di Musk sono divenuti molto più frequenti e politici da quando il padrone di X è venuto allo scoperto come sostenitore di Trump. Va ricordata la sua “intervista” a Trump trasmessa su X, nella quale l’ex presidente ha avuto il microfono aperto per le sue sempre più esagerate asserzioni. Negli ultimi giorni Musk ha postato che la scelta a novembre è fra il marxismo di Kamala Harris e la democrazia di Trump.
Le piattaforme sono spesso usate per disinformare ma anche per comunicazioni veritiere e importanti. Il presidente Biden, per esempio, quando ha annunciato il suo ritiro della candidatura alla presidenza il 21 luglio scorso lo ha fatto in un annuncio su X. La piattaforma di Musk e le altre possono avere valore ma vanno regolate. Certo né a Musk né agli altri padroni di piattaforme piace che il governo gli imponga dei paletti. Non piace ovviamente a Pavel Durov, l’imprenditore russo con cittadinanza francese, fondatore di Telegram, un servizio di messaggistica istantanea. Durov è stato recentemente incriminato dalle autorità francesi accusando la piattaforma come complice di pedofilia, frode e traffico di droga.
Tutti sappiamo che la disinformazione nel mondo digitale può causare seri danni specialmente perché queste piattaforme non conoscono nazionalità. Ovviamente possono essere strumentalizzate per nuocere alla democrazia. Recentemente il procuratore generale degli Usa Merrick Garland ha annunciato che sta investigando interferenze russe nell’elezione americana usando infatti alcune di queste piattaforme. È avvenuto in passato come ci ha ricordato Robert Mueller nel suo rapporto alla conclusione delle sue indagini nel caso del Russiagate nel 2019.
Le piattaforme sono molto simili ai media tradizionali ma fino adesso l’hanno fatta franca. In parte anche i media tradizionali aggravano la situazione perché usano anche loro i social per pubblicizzare i loro articoli ingarbugliando la linea di demarcazione tra le notizie affidabili e quelle non accertate. Danno in questo senso legittimità a una concorrenza che gli ha recato notevolissimi danni per quanto riguarda gli annunci commerciali che li mantengono a galla finanziariamente. L’azione di Moraes mira a mettere un po’ d’ordine in una situazione che danneggia il sistema democratico in Brasile ma anche in altri Paesi.
In America se ne parla poco eccetto per la legge approvata su Tik Tok che metterebbe a bando la piattaforma perché di proprietà cinese, la quale si teme potrebbe abusare dei dati degli utenti americani sotto richiesta del governo cinese. La legge è stata firmata dal presidente Biden e richiede che la compagnia venga venduta a un’entità statunitense per rimanere aperta negli Usa. Il pericolo più grande rappresentato da X e le altre maggiori piattaforme senza controlli è l’influenza negativa che hanno sulla democrazia. Chi le controlla le può usare per i suoi obiettivi politici. Musk ha già indicato dove si trova politicamente: a fianco di Trump che ha promesso di nominarlo nel suo governo con una carica per mantenere l’efficienza nelle spese pubbliche per eliminare gli sprechi. Sappiamo già come ha usato questa strategia. Musk quando prese possesso di Twitter cambiò il nome a X e poi licenziò quasi l’80 percento dei suoi dipendenti.
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.