Due interviste sugose, pubblicate una su Repubblica, l’altra sul Corriere della Sera: contengono una quantità di elementi su cui sarebbe opportuno riflettere e avviare qualche confronto (al contrario: è probabile che non accadrà né l’una né l’altra cosa). Gli intervistati non potrebbero essere più diversi: Roberto D’Agostino, il geniale inventore di Dagospia, sito compulsato almeno un paio di volte al giorno da chiunque bazzica palazzi del potere e ha a che fare con l’informazione, e il corrucciato, ma al tempo stesso corrusco filosofo Massimo Cacciari.
D’Agostino, incalzato da un sornione Concetto Vecchio, con disincanto e letterale “leggerezza” si sofferma su debolezze e limiti di una classe politica paragonabile a quel neopatentato cui si affida una Maserati. A partire da vicende che neppure la fervida fantasia dei fratelli Vanzina ha immaginato, D’Agostino con la nonchalance di chi tante ne ha viste e molte si prepara a vederne, versa il suo aceto su ferite aperte: ex ministri che perdono il controllo della ragione, «come un qualsiasi Alberto Sordi si è pure tolto fede», e così calpestano «la decenza istituzionale», non si rendono conto «di aver la responsabilità come ministro di rappresentare i cittadini italiani». Fino al sarcasmo impietoso: «La verità è che al potere è arrivato un centrodestra di scappati dalla scuola Radio Elettra di Torino che ignora le regole base della cultura del potere: dialogo, trattativa, compromesso. Non sanno come gestirla. Premier che con un tweet gettano sul marciapiede i compagni, ministri che fermano i treni, deputati che sparano a Capodanno».
Finale stoccata diretta alle sorelle Meloni: «Ma se non comandano nemmeno mariti e compagni. Se non riesci a governare in casa, come puoi governare un Paese?… Ha dell’incredibile che un premier non si fidi di un corpo dello Stato, come la polizia. Mai successo. Sono isolati in Europa, emarginati a Washington e passano il tempo a incontrare Orbàn. Una donna sola al comando rischia di andare a sbattere».
Se Messenia piange, Sparta non ride. Lo ricorda Cacciari. Roberto Gressi per il Corriere della Sera gli chiede un primo bilancio del “fare” e del “fatto” della segretaria del PD Elly Schlein; e lui: «Ha fatto quello che poteva. Doveva dire qualcosa di sinistra e ci ha provato. Poi ci sono i limiti evidenti, del Pd e della sua classe dirigente. Spesso vanno avanti per titoli e zoppicano sui contenuti. Ma gli altri stanno messi male. Autonomia differenziata e premierato sono boomerang, sulle riforme faranno la fine di Matteo Renzi, anzi peggio. Rispetto a un anno fa la situazione è quasi rovesciata. Nel centrodestra c’è un’aria di rotta, all’opposizione matura un ubi consistam, un punto stabile d’appoggio».
Poi l’affondo: la sinistra procede solo per titoli: «È un problema evidente. Il fisco, per esempio. Cosa si propone? Quali aliquote e come? Va bene, più soldi per la scuola, ma per fare che cosa? La sanità, evviva quella pubblica. D’accordo. Ma anche qui siamo alle predicazioni. Schlein ha capito le regole del gioco, non ci si sfida a tresette con quelle dello scopone. Ma siamo solo all’inizio. Se non all’anno zero, all’anno uno. È del merito delle cose concrete che bisogna occuparsi piuttosto che degli scandaletti come quello di Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia».
Diagnosi impietosa: l’Italia è un Paese stanco, vecchio, decrepito: «Anche i giovani migliori sono schiacciati da burocrazie, gerontocrazie e controlli. È uno schifo. È un tema di cui non si occupa più nessuno, c’è solo Giuseppe De Rita».
La medicina suggerita: «Ci vorrebbe un altro ’68. Non come quello vecchio, distruttivo ed estremista, ma un ’68 riformatore. Una rivoluzione culturale, che svecchi il linguaggio conservatore che domina sia a destra che a sinistra, nella politica, nei giornali, nella TV». In quanto all’agognato, evocato “campo largo”, è diviso sui grandi temi: «Finché non sei al governo fai melina, ci sta. Che Pd e Cinque Stelle siano divisi è relativo. O si sparano o, se vogliono sopravvivere, devono unirsi. Gli altri? Renzi e Calenda? Ci stanno, non ci stanno, è quasi indifferente».
In effetti c’è da essere poco allegri se, per esempio, alla recente festa di Alleanza Verdi e Sinistra appena Schlein evoca Renzi e Maria Elena Boschi viene accolta da fischi; Giuseppe Conte resta abbottonato come una sfinge, meditabondo forse sui guai interni e le scomuniche di Beppe Grillo; e dopo aver registrato il tanto che divide e il poco che unisce, per superare l’impasse quello che viene definito il coniglio estratto dal cilindro, la proposta “nata qui ora” del segretario di Più Europa Riccardo Magi: «Apriamo un tavolo permanente di confronto, ci state?». Nientemeno.
Per restare a una questione concreta, di “ordinaria”, annosa, emergenza: la giustizia e la sua amministrazione. Il Governo e in particolare il ministero di Giustizia, all’inizio dell’estate, avevano invitato a pazientare: avevano approntato provvedimenti che a settembre avrebbero dato i loro frutti. Di quale anno? Perché siamo a oltre metà settembre, dei frutti promessi non si vede nulla, neppure facendo ricorso al più potente dei binocoli. Anzi, si può dire che la situazione si sia ulteriormente incancrenita.
Uno dei compiti di chi è all’opposizione è di pungolare Governo e ministri. Niente, invece. Schlein aveva promesso un’estate di mobilitazione, ovunque. Poi è partita per ignote vacanze; della mobilitazione non s’è saputo e visto nulla. Di sicuro, a differenza di numerosi altri politici, anche di maggioranza, quest’estate non ha messo piede in un carcere. Anche questo vuol dire qualcosa.
Eppure, quello che si deve fare lo sanno. Il 19 febbraio 2018 La Stampa pubblica un paginone curato da Matteo Indice; si legge: «Il premier Gentiloni ha annunciato che entro la fine della legislatura sarà approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro della Giustizia Orlando».
La promessa: «In carcere non entrerà più chi ha riportato condanne inferiori ai quattro anni o ne deve scontare poco meno, combinando riforme del Codice penale e dell’ordinamento penitenziario». E ancora: «Concessioni di benefici come lavoro esterno, permessi premio, affidamento in prova e detenzione domiciliare a una serie di detenuti inquadrati secondo l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario». Alcuni passaggi poi riguardano le mamme detenute con figli al seguito. Viene prevista la possibilità per le madri di prole non superiore ai sei anni di espiare la pena negli istituti a custodia attenuata, subordinando l’assegnazione al consenso della donna e in assenza, al tribunale di sorveglianza.
Provvedimenti definiti “epocali”: allargamento della platea di chi può ottenere benefici; aumento delle tutele in carcere; si equipara l’insorgenza di “gravi problemi psichici” durante la detenzione a quella di importanti menomazioni fisiche, con possibilità di sospendere la pena dietro le sbarre. Obiettivo: coniugare diritti umani, diminuzione dei detenuti e tassi di recidiva. Tutte cose che il PD individuava e prometteva di fare fin dal 2018. Dunque, le domande: perché non l’ha fatto? Perché oggi non si mobilita perché sia fatto?
Così, ecco che come in un gioco dell’oca si ritorna a D’Agostino e a Cacciari: un centro-destra che ignora le elementari regole di governo; un PD e un centro-sinistra smarriti che procedono per “titoli”, senza concrete proposte alternative. In questo logoro e inutile pio-pio, bau-bau, miao-miao, bla-bla il Paese annaspa, invecchia, rischia la fine del Titanic. Ci si risparmi la sorpresa, per favore, se alle prossime elezioni la soglia di chi rinuncerà di esercitare il suo diritto di voto supererà il 50 per cento.