La vicenda del campo per immigrati voluto dal governo Meloni in Albania si sta rivelando una scelta discutibile sotto molti profili: dal punto di vista giuridico, da quello finanziario a quello organizzativo e, non da ultimo, da quello politico.
Il problema non è il fatto che il governo di ogni Paese europeo, e quindi anche l’Italia, possa indicare quali Paesi, a suo giudizio, possono essere considerati “sicuri”, oppure no, ai fini del respingimento di migranti irregolari, ma che tale definizione deve fondarsi su dati di fatto oggettivi e non su calcoli di convenienza politica. E, in ogni caso, come dice l’articolo 10 della nostra Costituzione, «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali» e quindi, in particolare, delle sovrastanti norme europee.
I criteri da utilizzare in questa valutazione sono stati codificati da una recentissima sentenza, del 4 ottobre 2024, della Corte di giustizia europea relativa ad un ricorso della Repubblica Ceca riguardante un immigrato dalla Moldavia. E alla luce di questi criteri diversi Paesi che compaiono negli elenchi non appaiono certamente Paesi “sicuri” verso i quali respingere automaticamente tutti gli immigrati dagli stessi provenienti. Basterebbe, del resto, anche solo dare un’occhiata al sito web del Ministero degli esteri “Viaggiare sicuri”, nel quale sono elencate le precauzioni che anche noi italiani, come viaggiatori, dovremmo adottare per evitare i rischi in quei Paesi, per capire di che cosa stiamo parlando.
Il clamore politico, particolarmente scomposto e aggressivo, che ha fatto seguito alla sentenza del Tribunale di Roma sui primi migranti trasferiti in Albania, ha in realtà cercato solo di nascondere il fallimento del tentativo del governo in carica di espellere i migranti senza fare alcun accertamento di carattere umanitario.
Nel tentativo di aggirare il problema, il governo ha poi deciso di inserire la lista dei Paesi “sicuri” in un decreto-legge – approvato il 21 ottobre 2024 – che appare però anch’esso di dubbia efficacia perché, non avendo osato affermare esplicitamente la superiorità delle norme nazionali su quelle europee per evidente incostituzionalità – certamente monitorata dal Quirinale – si è dovuto limitare a dare forza di legge a ciò che finora era un atto amministrativo e a prevedere una possibilità di ricorso in Appello anziché in Cassazione. Ma il governo, e il ministro della giustizia che è un ex magistrato, hanno calcolato bene l’impatto di intasamento sulle Corti di Appello di un simile provvedimento? Sembra di no.
Inoltre, di fronte a un caso concreto, il giudice potrebbe rilevare un possibile contrasto tra la norma italiana e quella vigente europea. Farebbe quindi ricorso al giudizio della Corte costituzionale, e il decreto-legge appena approvato rimarrebbe così praticamente sospeso nella sua efficacia fino alla sentenza della stessa Corte.
Se poi il governo o la sua maggioranza tentassero di introdurre emendamenti nel corso dell’esame parlamentare del decreto-legge che violassero i disposti costituzionali nel tentativo obliquo di far comunque prevalere la norma nazionale su quella europea, il tutto finirebbe certamente in un ricorso di incostituzionalità o in un referendum popolare il cui tema non sarebbero più i migranti, ma il fatto di rimanere o uscire dall’Unione europea.
Ma torniamo brevemente alla storia di questo pasticcio governativo. L’elenco dei Paesi considerati “sicuri” dall’Italia era stato redatto per la prima volta nel 2019 e comprendeva 13 Paesi, tra i quali non figuravano né Egitto né Bangladesh. Nel 2022 i Paesi scendono a 12 per l’esclusione dell’Ucraina dai Paesi “sicuri” dopo l’inizio dell’invasione russa. Il 17 marzo 2023 il nuovo governo Meloni aggiorna l’elenco dei Paesi “sicuri” aumentandolo da 12 a 16. Anche in questo elenco non figuravano né Egitto né Bangladesh.
Il 7 maggio 2024 il governo Meloni emana un nuovo elenco che aumenta il numero dei Paesi sicuri a 22 (poi ridotti a 19 con il nuovo decreto-legge del 21 ottobre 2024) includendovi anche i nuovi Egitto e Bangladesh.
Sorge legittima una prima domanda: quali progressi civili e securitari sono avvenuti tra il 2023 e il 2024 in questi due Paesi – Egitto e Bangladesh – per giustificare una loro nuova classificazione come “sicuri” mentre un anno prima non lo erano? In Egitto la situazione è oggi come quella degli anni precedenti (gli anni di Giulio Regeni) e in Bangladesh la situazione rimane assai pericolosa e precaria. Nulla è cambiato veramente rispetto al 2023.
La risposta, perciò, la dobbiamo cercare nelle statistiche del “Cruscotto” sulla immigrazione del Ministero dell’interno. Nel corso del 2024, gli immigrati di Bangladesh e Egitto sono stati, al 22 ottobre 2024, tra i più numerosi: 11.102 e 3.549 rispettivamente, pari al 27 per cento di tutti gli immigrati giunti in Italia nel periodo considerato. Se sono i più numerosi – avranno pensato a Palazzo Chigi – sono quindi quelli da espellere con priorità, cosa che si può cercare di fare soltanto se il Paese di provenienza è appunto definito “sicuro”.
Leggendo poi le carte interne del governo – pubblicate dalla Associazione ASGI a seguito di una regolare richiesta di accesso – si scopre anche che, mentre il Bangladesh era stato inserito nell’elenco 2023 dalla Commissione nazionale asilo, l’Egitto non era stato previsto. Il suo inserimento è avvenuto successivamente su esplicita richiesta del Ministero dell’interno. E si dovrà quindi chiedere al Ministro Piantedosi sulla base di quali elementi, solo da lui conosciuti, in questo ultimo anno l’Egitto abbia compiuto prodigiosi progressi di sicurezza interna.
Una seconda domanda riguarda il perché del trasferimento dei migranti in Albania. Se l’Egitto fosse davvero considerato un Paese “sicuro”, il migrante egiziano dovrebbe poter essere espulso con rapidità anche se si trova sul territorio italiano. Perché portarlo – con inutili maggiori costi – fino in Albania?
La risposta va cercata nella ragione sottostante alla idea di realizzare un campo di espulsione in Albania: determinare procedure di respingimento immediate, lontane da osservatori e controlli, per evitare che un esame della effettiva situazione dei singoli immigrati possa impedire il loro rimpatrio automatico. Basti pensare, ad esempio, che l’avvocato d’ufficio assegnato al migrante dovrebbe tutelare il proprio cliente – con il quale può comunicare solo in videoconferenza, visto che esso si trova in Albania – senza sapere nulla di lui, non avendolo mai visto né conosciuto prima.
E comunque, anche ammesso che le procedure di espulsione vengano così accelerate, le espulsioni poi avverrebbero veramente? La risposta non è incoraggiante.
Non si deve dimenticare infatti che per espellere effettivamente un migrante servono almeno due requisiti: il decreto di espulsione e un accordo per il rimpatrio con il Paese di provenienza. Senza questo accordo il migrante espulso rimane nel Paese di arrivo come clandestino.
Secondo i dati Eurostat al 30 giugno 2024 erano stati rimpatriati nei primi sei mesi del 2024 dai Paesi europei 56.080 migranti su un totale di 199.620 ordini di espulsione, pari quindi al 28 per cento del totale. Per quanto riguarda l’Italia, alla stessa data, i rimpatri erano stati 2.035 su un totale di 13.330 ordini di espulsione, quindi solo il 15 per cento, circa la metà della media europea.
Ciò significa, in altri termini, che l’85 per cento degli espulsi è rimasto in Italia come clandestino, con tutte le conseguenze negative che ciò comporta. Una prova di inefficienza anche rispetto agli altri Paesi europei che richiederebbe dal governo in carica una capacità di intervento che invece non sta dimostrando.
Alla mancata efficienza si deve aggiungere il problema politico di una visione distorta del fenomeno della immigrazione di questi anni. «L’immigrazione – dice ad esempio Giorgia Meloni nel recente libro “Io sono Giorgia” – è uno strumento dei mondialisti per scardinare le appartenenze nazionali, per creare un miscuglio indistinto di culture, per avere un mondo tutto uguale e, possibilmente, tutto fatto di gente debole».
L’immigrazione non sarebbe dunque conseguenza delle tragedie delle guerre di Siria, Ucraina, Medio Oriente, della repressione violenta in regimi dittatoriali, delle crisi alimentari indotte in Africa dalla desertificazione legata ai cambiamenti climatici, ma sarebbe invece il prodotto di un complotto a scala globale di fantomatici “mondialisti” che utilizzerebbero le crisi per avere “un mondo tutto uguale”.
Come se non bastasse, si è fatta strada l’idea – se così la si può chiamare – che fare da soli è l’unico modo per risolvere i problemi: le uniche norme che contano sono quelle nazionali, e le norme europee sono invece secondarie e residuali.
La stessa Meloni risulta prima firmataria della proposta di legge costituzionale n. 291 presentata nel 2018, all’inizio della scorsa legislatura, e firmata da molti attuali membri del governo, avente per titolo: «Modifiche degli articoli 11 e 117 della Costituzione, concernenti l’introduzione del principio di sovranità rispetto all’ordinamento dell’Unione Europea».
Il pasticcio Albania non è stato dunque solo un errore di sottovalutazione politica e giuridica della complessità del problema, ma è stato purtroppo anche la conseguenza di una impostazione ideologica che vorrebbe imporre la propria ristretta visione nazionalistica ovunque possibile, anche quando la natura e la dimensione dei problemi hanno un evidente carattere non solo sovranazionale, ma addirittura continentale.