La Prima Repubblica conosceva i politici di professione. Generalmente quando si entrava in Parlamento era o per meriti acquisiti sul campo, o perché si era capi corrente di partito, o come premio a fine carriera di una lunga militanza politica. Fare politica insomma diventava per molti esercitare una vera e propria professione.
A cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica si aprirono tra gli altri due dibattiti, uno sulla forma di partito – pesante, radicato, strutturato, con le sezioni, le federazioni, i regionali, i quadri dirigenti intermedi, i tesseramenti, i funzionari retribuiti, le riunioni degli iscritti, del direttivo e della segreteria, quartiere per quartiere, comune per comune, provincia per provincia, regione per regione fino ad arrivare alla megagalattica sede centrale di Roma, un luogo mitico per il militante ortodosso, al punto tale che varcarla generava più di una emozione, l’ebrezza di aver raggiunto il vertice del potere. Oppure si sosteneva la scelta di un partito leggero, senza sezioni, senza funzionari pagati, senza quadri intermedi, partito senza struttura e quindi volubile ai cambiamenti di mentalità e punti di vista della società – e l’altro dibattito era sul politico: se dovesse essere o meno di professione o appartenere alla società civile.
I politici della cosiddetta vecchia guardia come Armando Cossutta ad esempio erano convinti che per governare bene il Paese servissero politici di professione, totalmente votati alla causa, che con spirito di abnegazione e sacrificio rinunciassero a una carriera magari di successo nelle professioni o nella imprenditoria per dedicarsi anima e corpo moltissime ore al giorno, 7 giorni su 7, 12 mesi su 12 al partito e al Paese.
La Seconda Repubblica ha respirato l’entusiasmo berlusconiano del libero professionista e dell’imprenditore che scende in politica per scalzare meccanismi obsoleti e mettere al centro la società civile, concetto che i grillini hanno poi esasperato alla ennesima potenza, addirittura utilizzando le istituzioni come mezzo per trovare un primo impiego. È significativo infatti che moltissimi parlamentari grillini non avessero mai avuto un conto corrente bancario prima di varcare la soglia di Montecitorio. Ed ecco quindi che si passa dalla categoria di politico di professione a quello di politico come professione. «Porterò in Parlamento tutta la mia inesperienza» tuonava Marianna Madia a commento della propria candidatura. Un po’ come se la politica, dopo il trauma di Tangentopoli, avesse bisogno di uomini e donne della società civile, senza esperienza in politica per poter riconferire una autorevolezza nuova alla politica.
Adesso che siamo nella Terza Repubblica, assistiamo al fenomeno dilagante, eccessivo, asfittico dell’amichettismo e del parentismo. Niente di nuovo sotto il sole: lo faceva pure Napoleone!
Egli sceglieva i parenti da mettere a capo dei vari Stati che conquistò, ma l’unico della sua famiglia ad aver avuto un successo qualificato come servitore imperiale fu il suo figliastro Eugène de Beauharnais, l’unico fra tanti carenti per capacità ed esperienza.
È un concetto tipicamente familistico che in un Paese come l’Italia, dove il merito viene usato solo come irrealizzabile specchietto per le allodole per confondere le masse, fa danni ancora più profondi.
È inquietante vedere come la realtà sia pervasa da muri che sbarrano l’accesso ai portatori di merito e di sapere, e invece ci si trovi troppe volte e sempre più spesso a fare i conti con la “moglie di… “, il “figlio di…”, “l’amante del…”, la “sorella di …“, il “cognato della ….”; e l’elenco potrebbe a lungo continuare.
Vale in moltissimi settori, da Palazzo Chigi alle nomine dei ministeri, agli uffici stampa e agli enti di secondo grado, ai concorsi, alle selezioni. Difficile trovare un orfano in un luogo di potere in questo periodo. Come Renzi fece un errore strategico nominando nei ruoli di potere solo Fiorentini, facendo compattare tutti coloro a cui già non stava simpatico, così oggi la situazione sembra ancora più impantanata.
E non basta un bravissimo presidente del Consiglio, preparato, attento, perspicace, tenace come è Giorgia Meloni a far scomparire dai radar figure che mal ricoprono o che ricoprono a fatica il ruolo che è stato loro assegnato.
Ma ancora più difficile è per molti italiani, che non vivono di politica ma che devono affrontare i problemi della quotidianità, comprendere come in un settore strategico qual è quello della Sanità, dove dovrebbero esserci – oltre all’utilizzo sistematico delle ultime tecnologie fondamentali per avanzare in settori delicati come la ricerca – anche figure professionali di primissimo livello che siano svincolate da interessi e compartecipazioni, pullulino invece personaggi che nulla hanno a che fare per studi e competenze con questo mondo. Si potrebbe fare un elenco di controsensi e paradossi spiacevoli e imbarazzanti, dalla compartecipazione del sottosegretario Gemmato – che insieme al ministro Schillaci dovrebbe prodigarsi per abbattere i tempi delle liste di attesa per le visite sanitarie pubbliche – a una serie di ambulatori privati che si auto sponsorizzano mettendo slogan sulle liste di attesa «da noi evitate i tempi lunghi del pubblico» o di nomine fatte da ministri ombra della sanità che piazzano compagne, amici e amiche in una gestione clientelare del potere che prescinde dai curricula, dal merito e dai risultati.
Così come i super stipendi dai 250 mila euro annui in su elargirti a chi ricopre ruoli ottenuti per via amicale, parentale etc. Mala tempora currunt. Chissà se oramai tutto è perduto e il Paese è irrimediabilmente compromesso al punto tale che i nostri cervelli migliori scappano all’estero attratti dalla promessa della meritocrazia o se basterà attendere l’arrivo di un nuovo governo per produrre anche solo una lieve impercettibile ma fondamentale inversione di tendenza.