Andavamo, mia madre ed io, alla Rinascente quasi con cadenza mensile. Pargolo più piccolo, curioso, ma ancora facilmente gestibile e quarantenne mai in sosta fra lavoro e famiglia, curiosa anche lei.
Si affacciavano gli anni ’50, si annunciava la svolta, ma il boom ancora ci sfiorava soltanto. Quel palazzone illuminato dava l’idea di un benessere possibile anche se ancora troppo costoso per i magri bilanci. La mia passione erano le scale mobili, allora con gradini e mancorrenti in legno odoroso quasi a voler nascondere il misterioso meccanismo ascensionale. Giocattoli si, vestiti meno, il mio era solo un piccolo viaggio nella modernità in attesa del premio che mi spettava per essere stato tranquillo ed ubbidiente durante tutta la trasferta: una fumante pizzetta napoletana al gran caffè Berardo che trionfava con le sue scintillanti vetrine nella galleria Colonna, a un passo del cinema Ariston, il migliore, appunto. Una botta di vita.
Il copione era sempre lo stesso, rassicurante senza riuscire ad essere però monotono. Ma quel giorno l’imprevisto. Al terzo piano fra vestitini leziosi e scarpette rosa un’esposizione esagerata di bambole. Ma non quelle di mia sorella che conoscevo e che pettinavo, dialogando qualche volta (ahi, ahi), e che venivano portate spesso, anche per mia colpa, in riparazione in clinica, così si chiamava, a piazza Belli, un locale che in tempi recenti ha ospitato una sezione di Rifondazione Comunista, dal romanticismo alla lotta.
Le figure sul bancone erano diverse e meno fragili, il cartello sovrastante lo diceva con chiarezza, erano “bambole di ciccia”. Proprio così. Braccia, viso e gambe non erano dure e fragili, ma morbide, gommose, con una “pelle” liscia che invitava alla carezza e al pizzicotto. Folgorato dalla visione e dalla conferma manuale, rubata, non ebbi dubbi: pretesi l’acquisto, non come desiderio ma con grinta.
Le commesse ridevano dandosi gomitate pudiche. Anche mamma sorrise ma non fece nulla per fermarmi. Solo un po’ di conti e la difficile rinuncia ad un acquisto già programmato. Mi consegnò la pupa ma mi disse che costava un sacrificio: niente pizzetta da Berardo quella sera. Stomaco vuoto ma vuoi mettere! Niente di scontato, quindi, ma niente da ridire sulla mia scelta, diciamo poco ortodossa.
Va da sé che quella pupazza dormì a lungo con me insieme a un pinocchio di stoffa malfatto ed alla tartaruga di nome Caterina quando era in letargo. Troppo presto per le pulsioni, mostravo forse tendenze nascoste? Mi ritengo fortunato. Fossi nato di questi tempi quella mia passione mi avrebbe costretto verso chissà quali percorsi. Potevo diventare io una cavia gender per studi fondamentali come quello inventato all’università Roma Tre.
«Una ricerca per acquisire le valutazioni sul fenomeno direttamente dalla voce dei minori con identità di genere non normativa». Il rettore dice che chi si è meravigliato e ha protestato per l’iniziativa ha avviato una caccia alle streghe. Gli sfugge l’abnormità di trasformare casi clinici da rispettare e da curare, in fenomeni sociali.
Beato lui, poveri bambini (maschile plurale comprensivo dei due sessi!) sono cresciuto con interessi di conoscenza biblica, ho frequentato donne quanto basta non essendo un tombeur, e con esiti alternanti, ne ho amate alcune, ho avuto figli, l’amore mi ha riempito la vita, sono ancora in grado di sognare. In una lettera al Corriere della Sera ho letto la proposta non peregrina di regalare una bambola ai bambini maschi, un po’ per esorcizzare un po’ per mettere ordine in un rapporto fra i sessi diventato quantomeno problematico. Beh per una volta ho anticipato i tempi. Tombola.