Come intervenire se si vuole che il sistema di protezione universalistico italiano ed europeo continui a caratterizzare il nostro modo di vita? Se lo chiede il professor Magatti argomentando in un recente articolo sul Corriere della Sera.
Per affrontare i problemi sociali -osserva Magatti- serve grande flessibilità che deriva dalla capacità di integrazione e collaborazione tra le diverse amministrazioni e i vari atti privati, distinguendo tra spesa pubblica (che non può arrivare dappertutto) e welfare (che è uno sforzo corale di tutta la società). «Il che significa calibrare meglio quello che possono fare lo Stato, il terzo settore, il privato, le reti informali, la famiglia, la singola persona». All’interno però di una cornice di senso che fa della cura della persona una leva di crescita economica e di integrazione sociale.
Giorni or sono Longo e Ricci, estensori del Rapporto Cergas/Bocconi 2025 sulla sanità, invitavano a «prendere consapevolmente atto» del fatto che è una «scelta collettiva» quella di finanziare in modo modesto il Ssn, e che va detto senza mezzi termini cosa il servizio pubblico è in grado di coprire e cosa no «allineando così le aspettative dei cittadini a quella che è la realtà dei fatti».
«Come erogare buoni servizi sanitari nel secondo paese più vecchio al mondo, pur destinando alla sanità pubblica il 6,3% del PIL» in un Ssn fondato sull’universalismo, con le aspettative conseguenti? Come avere una sanità per tutti, nei fatti e non a parole? Quali sono le prospettive che restano per frenare la deriva attuale? Il Rapporto le suggerisce: selezionando le priorità d’intervento: aree di patologia, setting assistenziali, cluster di popolazione per reddito o livello di istruzione, portafogli di tecnologie da includere nel contenuto dei servizi garantiti dal Ssn.
Una volta definiti i diritti esigibili e le aree di intervento, il Ssn dovrebbe esplicitare quali siano i target prioritari e quali sono i criteri di accesso, «che dovrebbero essere diversi dalla disponibilità a pagare cifre davvero consistenti» come adesso capita in alcuni segmenti come le residenze socio-sanitarie. «In questo modo, progressivamente, dovremmo determinare una convergenza tra il prescritto e l’erogabile dal Ssn, ricreando chiarezze e certezze nei cittadini e pazienti».
Una sanità pubblica che darà di meno, una “offerta” pubblica però ora “garantita” a tutti e da organizzare su basi nuove. A ben vedere si stanno da tempo prefigurando una serie di soluzioni che portano ad una sanità diversa mentre nel dibattito dentro e fuori del Parlamento non si riesce a percepire la presa in carico di un processo riformatore che guardi al futuro pur da più parti auspicato. Diversi gli annunci di proposte ma assenza di una proposta organica, aggregante, condivisa e partecipata a fronte di molte indicazioni di interventi manutentivi dell’esistente.
Se negli anni 70 il modello di welfare, reso esplicito dai processi riformatori, considerava gli italiani in quanto cittadini titolari di una serie di diritti sociali (assistenza sanitaria, pensione, scuola gratuita), è con gli anni ‘90 e primi anni 2000, che il modello riprende a ruotare regressivamente attorno alla soddisfazione della prestazione individuale. Come prima degli anni 70.
Ai nostri giorni il modello di welfare è un sistema che, integrando Stato e mercato, è congegnato per rispondere (e non ha risposto) in modo efficiente a una domanda individualizzata. L’aumento vertiginoso delle esigenze individuali, le inefficienze del sistema e l’indebolimento della stessa idea di solidarietà non ha permesso di soddisfare la domanda individuale (crescente) per la cui soddisfazione oggi, si propone, interessatamente, di percorrere fino in fondo la via della totale privatizzazione che però -osserva Magatti- «comporta l’abbandono dell’idea stessa di welfare e l’accettazione di una società (ancora più) disuguale».
Un giudizio preoccupato il suo che gli fa dire che «lo scostamento tra entità della spesa, capacità di soddisfare i bisogni e percezione diffusa di crescente precarietà costituisce un mix esplosivo destinato ad avere implicazioni politiche molto rilevanti nei prossimi anni».
I rischi di uno sfaldamento della coesione sociale a causa della crisi del welfare sono concreti. Da tempo è evidente che, nella riaffermazione dell’universalismo nelle tutele, non si può aspettare ad avanzare una proposta di cambiamenti urgenti e profondi. Una effettiva svolta alternativa alla deriva in atto fatta di privatizzazione strisciante, di logiche prestazionistiche consolidate, di posizione dominante del privato nel sociale e in molti settori della sanità, in specie territoriale.
È a tal fine che sul piano dell’azione, della promozione della partecipazione delle persone là dove vivono, nei territori, e là dove lavorano, nei posti di lavoro, che il sindacato che è un protagonista sociale, deve saper ascoltare, indicare i temi, promuovere e portare a sintesi una discussione sulla salute e sulla non autosufficienza. Confrontandosi nei luoghi di aggregazione sociale, con le persone, con gli operatori, confrontandosi in modo disponibile e aperto con le forze politiche. Promuovere un progetto di riforma insieme a chi la riforma la vuole, coordinando la discussione nella quale tutti siano coinvolti, richiedendo un confronto e una discussione veri nelle sedi istituzionali, in Parlamento, senza aprioristiche contrapposizioni. Va aperta una quarta fase del welfare italiano (che non sia quella della privatizzazione del welfare) che non s’impone stando a guardare. Come è accaduto negli anni ’70 sotto la spinta culturale, politica e sindacale venuta avanti da estesi settori del paese.
Serve, in tempi brevi, un nuovo modello che (tenendo conto dell’effetto a cascata dell’attuazione del PNRR tra investimenti e processi di riforma in atto) consideri le potenzialità della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale come parte essenziale, intrinseca della revisione dei modelli assistenziali. Occorre avviare una decisa riorganizzazione dei servizi pubblici e del terzo settore investendo massicciamente sulla formazione delle persone. Una formazione che nella preparazione professionale dei singoli profili professionali ne rafforzi l’identità sociale con le caratteristiche utili a mettersi in discussione nel lavoro di equipe, multidisciplinare integrato, guardando alle comunità e ai luoghi di cura.
In un quadro sociale che cambia il rapporto fra Stato e mercato prefigurato da Rosanvallon e poi declinato dal mondo cattolico sul piano concettuale e in sede legislativa, dal ruolo dei “mondi vitali” di Ardigò nella salute al terzo settore impresa sociale “d’interesse generale per finalità sociali”, va rivisto anche il ruolo di un terzo settore che sempre più svolge un ruolo sostitutivo dello Stato, vive di autoreferenzialità, non proprio quel nuovo «welfare generativo» di cui si è scritto. Lo “stato minimo” non è l’ambiente più adatto per far vivere il welfare universalistico, di comunità, di prossimità.
Avanza l’idea che rilanciare un welfare universalistico delle collettività sia di nuovo possibile affidandosi alla migliore integrazione tra mercato, intervento statale, piattaforme tecnologiche, partecipazione sociale, contributo personale.
Di certo se ci sarà ancora, il welfare deve essere diverso da quello che conosciamo.
Giorni or sono gli esperti del Rapporto Cergas /Bocconi 2025 sulla sanità invitavano a «prendere consapevolmente atto della scelta di finanziare in modo modesto il Ssn» dicendo però senza mezzi termini cosa il servizio pubblico è in grado di coprire e cosa no, «allineando così le aspettative dei cittadini a quella che è la realtà dei fatti».
Aumentare le risorse per il Ssn. Certo, si può sempre fare osserva il Rapporto. Per portare la sanità pubblica italiana ai livelli dei grandi Paesi europei, prosegue il Rapporto, servirebbero però almeno 40 miliardi (che non ci sono) anche se appare «poco plausibile economicamente e politicamente introdurre ulteriori prelievi dalle aree geografiche e dalle fasce sociali che già molto sostengono il Welfare».
Una recente sentenza della Corte costituzionale ha messo in evidenza, dichiarandone l’illegittimità costituzionale, la volontà del governo di non escludere dalle risorse che è possibile ridurre nella legge di bilancio 2025, quelle spettanti per il finanziamento dei diritti sociali, delle politiche sociali e della famiglia e, in particolare, della tutela della salute.
Il diritto alla salute, dice la Corte, «coinvolgendo primarie esigenze della persona umana», non può essere sacrificato «fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità».
Tra definanziamento attuato e rischio di tagli lineari la sanità quali strade deve prendere per essere universalistica nei fatti e non solo a parole? Quali prospettive restano per frenare la deriva attuale?
Se la frontiera da difendere è quella dell’universalismo, vanno selezionate, secondo il Rapporto, le priorità d’intervento, vanno poi esplicitati da parte del Ssn i target prioritari ed i criteri di accesso, «che dovrebbero essere diversi dalla disponibilità a pagare cifre davvero consistenti» come adesso capita in alcuni segmenti come le residenze socio-sanitarie.
«In questo modo, progressivamente, dovremmo determinare una convergenza tra il prescritto e l’erogabile dal Ssn, ricreando chiarezze e certezze nei cittadini e pazienti».
Intanto l’organizzazione del Ssn, dagli ospedali (come visto nella pandemia) al sistema delle cure primarie (come da ripetute prese di posizione FIMMG) è rigida e si continua a fare quello che si è sempre fatto, mentre sfuggono i nuovi bisogni. Cambiare è davvero una urgente necessità.
Rino Giuliani Responsabile sanità dello SPI CGIL di Roma e del Lazio